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Un affare di famiglia

 tra amore, legge morale e legge sociale

 

a cura di Cosmo Pietro Ferraro

 

tempo di lettura 2 minuti

 

Regia: Hirokazu Kore’eda

Produzione: Giappone

Anno: 2018

Di solito i genitori non si scelgono…noi ci siamo scelti, non è vero!?!”

– Hatsue Shibata

È il nostro segreto: siamo una famiglia!”

– Osamu Shibata

Il cinema di Kore’eda, molto apprezzato nei più prestigiosi Festival nazionali ed internazionali, è da sempre caratterizzato dalla sua attenzione verso i legami familiari come nel suo ultimo Le verità (2019), presentato a Venezia, o in Father and Son (2013). Nel 2018 il regista affronta lo stesso tema in Un affare di famiglia che vince la Palma d’Oro a Cannes lo stesso anno in cui Garrone partecipa con Dogman (già recensito qui nella nostra rubrica).

Il regista giapponese ci porta nella periferia di Tokyo ad interrogarci sulla vera natura dei legami familiari. “Di solito i genitori non si scelgono”, dirà la nonna Hatsue. Questo invece è un nucleo di persone che si è scelto e che sembra anche volersi bene. Vivono in uno spazio che sembra davvero troppo piccolo per tutti e al quale si aggiunge un’altra bambina (Juri/Rin) che Osumo e suo figlio, credendola abbandonata, decidono di prendere con loro. In realtà la piccola viene picchiata e maltrattata dalla sua famiglia naturale e ritrova in questa nuova famiglia posticcia l’amore di cui aveva bisogno. Da questo momento in avanti una serie di eventi, scoperte e accadimenti mettono in crisi i legami familiari che sembravano così solidi fino a quel punto.

Vivono la povertà nella sola maniera che conoscono, ovvero attraverso piccoli furti e sotterfugi (l’unica cosa che Osumo, il padre, riesce ad insegnare ai suoi figli). L’occhio di Kore’eda non è mai giudicante e non possiamo fare a meno di empatizzare con questa famiglia di ultimi nonostante i crimini, le debolezze e l’assenza di moralità.

Ma in questo film nulla è come sembra e anche questa dolcezza che sembra stringerci il cuore mentre li spiamo così stretti e uniti nella loro piccola casa è solo un’illusione. Il regista ce li mostra uniti più di una volta solo attorno al cibo, come se questo amore fosse legato ad un bisogno biologico primario. Infatti la cognata di Osumo, Aki, cerca un contatto interpersonale con uomini senza nome che lei incontra dietro un vetro nel locale di peep show per il quale lavora, che si presentano con un numero e che lei non può toccare. La coppia di genitori d’altra parte pare rispettarsi troppo per poter aver un contatto sessuale e sarà proprio Aki a spingerli verso questa condivisione in uno dei momenti in cui sembrano aver perso tutto.

Scopriremo più avanti che in realtà nascondono un terribile segreto che in maniera fantasmatica lavora nell’inconscio familiare e soprattutto in quello di Shota, il primo figlio. È lui che ha il compito di spezzare l’incantesimo ed incarnare la Legge del Padre per riportarla nel registro della Morale. Di segnare il limite tra il legale e l’illegale, tra giusto e sbagliato. Inserisce l’Altro in quella che era una relazione magmatica e indistinta, traccia il limite del Reale anche tra quelle che fino a poco tempo prima erano le loro relazioni familiari. Questo costerà molto di ciò che tutti possedevano ma li renderà liberi di intraprendere un percorso di individuazione e riconoscimento di sé stessi e degli altri.

È un film sull’amore, sulla legge morale e quella sociale. Quest’ultima cerca di inscrivere l’amore in categorie prestabilite da cui per comodità tendiamo ad aspettarci un dato comportamento (un genitore non farebbe mai del male alla propria figlia, mentre un taccheggiatore che rapisce una bambina dovrebbe essere subito arrestato, vero Juri/Rin?), ma, direbbe De André “l’amore ha l’amore come solo argomento”.

Non è necessario partorire un bambino per essere una madre, non basta un cognome per formare una famiglia.

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