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The Neon Demon

L’occhio dell’Altro

a cura di Luca Ricci

tempo di lettura 2 minuti

Regista: Nicolas Winding Refn

Anno: 2016

Produzione: Francia, Stati Uniti D’America, Danimarca

 

 

«Quand’ero bambina, di notte andavo spesso sul tetto di casa. Pensavo che la luna fosse come un grande occhio che mi guardava. Io guardavo lei e le dicevo: “Hey, mi vedi?”. Stavo lì per delle ore, e a volte mi addormentavo sognando. Ciò che volevo diventare. Non riuscivo a immaginarlo. Non so cantare, non so ballare, non so scrivere… Ma sono carina». (Jesse a Dean)

I piani di lettura di questo film sono infiniti. Che è come dire che può essere osservato da più punti di vista. Ed è proprio l’occhio che, a mio avviso, pervade The Neon Demon, l’occhio dell’Altro che si sdoppia, si moltiplica e si ripiega su sé stesso. Il Demone è il Neon, la luce fredda di un occhio che illumina l’involucro corporeo, gli dona senso, ma non vita.

Jesse è una bellissima ragazza sedicenne che decide di diventare modella. Si trova quindi nel nuovo mondo di Los Angeles, molto lontano dal piccolo paese di provenienza. Qui muove con estrema facilità e successo i primi passi all’interno delle agenzie di reclutamento di modelle, suscitando ammirazione in stilisti e fotografi e invidie nelle colleghe. Il suo volto di porcellana, angelico e i suoi modi innocenti stregano un ambiente che appare sin da subito corrotto. Ruby, una truccatrice professionista, prende sotto la sua ala protettiva Jesse, cercando di avvertirla circa i rischi che si corrono in quell’ambiente e dandole la sua completa disponibilità. I rischi non derivano solamente dalle avancés di fotografi e stilisti, ma soprattutto dalle colleghe più “anziane”, che vedono nella bellezza e ingenuità di Jesse un pericolo per il loro primato.

Appena arrivata stringe un legame con un fotografo amatoriale, Dean, un ragazzo più grande che sembra mostrare un interesse anche per la vita intima di Jesse. Un ragazzo che cerca di tutelarla e che vede in lei, si direbbe più in via proiettiva, una vita interiore dotata di capacità creative. Sembra che veda in lei, dentro di lei, un po’ di vita. Col procedere dell’affermazione nel lavoro di modella, Jesse attira lo sguardo di tutti, ruba la scena, fino a diventare la modella di punta in una sfilata. Refn non mostra la sfilata, mostra il Demone del Neon, ossia lo specchio. Jesse è all’apice della narcisizzazione, si guarda nello specchio e si bacia. Ha il riconoscimento globale, totale: tutti la guardano. Ma lo specchio è sempre presente. Jesse non ha costruito un’interiorità in cui può albergare un nucleo vitale; lo specchio si è moltiplicato e la fa esistere, ma solo come guscio esterno. Guscio sul quale tutto si appiattisce. Dean, lo scomodo promotore di una vita interna viene lasciato. Le colleghe invidiano Jesse, il suo corpo, ma anche quella “luce” che sembra differenziarla dalle altre e che ammalia fotografi e stilisti. Una “luce” che non viene concepita come interiorità psichica, ma che rimane sul piano corporeo: una modella vorrà succhiarle il sangue quando un vetro produce una crepa nel guscio di avorio della mano di Jesse. L’interiorità è animistica, materializzata e non riconosciuta.

La stanza del motel in cui alloggia Jesse, viene più volte presa d’assalto da ladri, animali e stupratori, segnalando quanto la presenza dello sguardo dell’altro sia fondamentale per il mantenimento stabile di un involucro. L’interiorità è precaria, la solitudine è pericolosa. Jesse chiama in soccorso Ruby, la truccatrice, che la ospita in una villa alla quale fa la guardiana. E Ruby brama Jesse, vuole possederne il corpo. Ma Jesse rifiuta. Ruby, che trucca anche i cadaveri per i funerali, ha un rapporto necrofilo sostitutivo con uno di questi, mentre fa fantasie su Jesse. Altro corpo esanime, senza interiorità, senza vita. Come Jesse, che esiste solo grazie all’occhio dell’Altro che la guarda.

La “luce” di Jesse è il segreto per essere visti, e che deve essere preso, conquistato. Ma non è una luce interiore, non giunge da uno spazio psichico: proprio perché funzione dello sguardo dell’Altro si appiattisce sull’esterno, si fa “cosa”. La conquista di questa “cosa”, diviene la molla per l’epilogo, un epilogo ordalico in cui con sforzo si cerca di costruire un interiorità, che però rimane interiora, interno di un corpo. Con un’estetica estrema, Refn esplora quanto sia lacerante costruire un interno, avere un “occhio” intimo che guarda da dentro. Creare uno spazio e accogliere l’Altro. E esplora anche la scelta di non creare un mondo psichico, di rimanere sulla superficie, sebbene sia quella ripiegata al di dentro di un apparato digerente.

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