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The Bling Ring

Gli adolescenti oggi tra Anzieu e Louboutin

a cura di Cosmo Pietro Ferraro

tempo di lettura 2 minuti

Regista: Sofia Coppola

Anno: 2013

Produzione: USA, UK, Giappone, Francia, Germania

 

The Bling Ring” è il nome che la stampa americana aveva dato ad un gruppo di ragazzi che passava le giornate a svaligiare le ricche ville dei divi di Hollywood. Il piano era semplice. Seguire i movimenti delle star attraverso siti di costume e società per poi intrufolarsi indisturbati nelle loro case e, a missione compiuta, guadagnare popolarità sui social e tra i corridoi della scuola. La notizia è rimbalzata su tv e giornali fino ad accendere la creatività di Sofia Coppola che con maestria riesce a dipingere il mondo di mezzo dell’adolescenza e trattare con delicatezza il tema dell’alienazione.

La regista americana ci ha abituato a grandi capolavori (ne abbiamo parlato anche qui) ma, anche se questo suo film non brilla come i gioielli di Paris Hilton, rimane un esperimento interessante per la tematica trattata e il modo in cui sceglie di farlo.

L’effetto è straniante. Ci sentiamo quasi annoiati mentre osserviamo le vuote vite di questi ragazzi attirati solo dal brillare delle starlette sulle riviste patinate. Nonostante il lusso, i soldi, gli abiti firmati, la droga e le feste a tutto volume la loro esistenza ci scorre piatta. Tutto gira attorno a simboli vuoti innalzati a feticcio di gloria e potere (non è un caso forse che il fatto di cronaca diventerà di dominio pubblico grazie ad un articolo su Vanity Fair dal titolo “The suspects wore Louboutins”).

Fin troppo facile forse puntare il dito contro la società moderna priva di valori e i giovani nichilisti plagiati dai social e dai mass media. No, qui c’è molto di più. La mancanza del limite non solo non consente la visione dell’Altro, lo sviluppo dell’empatia e la costruzione di una legge Morale. Tutte cose che avrebbero comunque tenuto lontano questo gruppo di ragazzi dal commettere delitti e infrangere la Legge. Ma la mancanza dell’incontro con l’Altro, in questo caso, crea un deficit nella costruzione del Sé. È un problema principalmente identitario.

Se ci fermassimo all’apparenza, come nel primo caso, potremmo pensare semplicemente di avere a che fare con un problema di devianza e comportamento antisociale come per un gruppetto di delinquenti qualsiasi che vivono la marginalità della nostra società. In questo caso invece siamo di fronte a ragazzi appartenenti ad un ceto sociale alto che vive forse una delle zone più ricche del pianeta. Marc, Rebecca ed il suo gruppo di coetanei non avevano nessun interesse per i soldi. Ci provano ad un certo punto a vendere distrattamente qualcosa allestendo un piccolo mercatino per strada ma la resa è minima e non certo per la qualità dei capi in vendita o per loro demeriti. Il loro interesse era quello di indossare gli abiti dei loro idoli, entrare nei loro vestiti e nella loro vita, camminare con le loro scarpe. Quegli abiti griffati erano una seconda pelle che doveva tenere insieme le falle della costruzione identitaria originale. Un nuovo io pelle, griffato Versace.

Anche quando, nel momento dell’arresto, entra prepotentemente in campo il senso della Legge e del limite il risultato non è quello che ci si potrebbe attendere. Nessun segno di pentimento, anzi il processo diventa un tappeto rosso sul quale sfilare accerchiati da flash e paparazzi proprio come i loro idoli. L’unico che mostra dei segni di rimorso è Marc che vediamo più volte nel film indossare tacchi e abiti femminili, anche in stanza da solo. Nel suo caso il deficit identitario sembra aver trovato la strada del sintomo nella disforia di genere che paradossalmente lo rende più accessibile ad un livello di pensiero, per quanto patologico da un punto di vista diagnostico.

Per tutte le altre non resta che il successo da scontare all’interno di un reality show permanente che è diventata la loro vita.

 

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