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JOKER

a cura di Luca Ricci

 

 

Regista: Todd Philips

 

Anno: 2019

 

Produzione: Stati Uniti d’America

 

Al termine del film, il titolo appare un pretesto. Non si sta parlando di Joker. Almeno non del Joker cui Nicholson o Ledger ci hanno dato una rappresentazione memorabile. Si sta parlando di “un” Joker. Un origin movie che appare un’anamnesi clinica, capace di creare non solo immedesimazione filmica, ma empatia. E non si tratta neanche di un cinecomic. L’impianto fumettistico tradizionale manca quasi del tutto, se si escludono dei riferimenti all’Universo DC di Batman. Non serve, è una scusa per dire altro.

Arthur Fleck è una persona complicata, che fa una vita complicata in una società dilaniata. Ho voluto empatizzare con lui mentre viene reso oggetto di scherni e violenze. Ho cercato con forza di trovare del buffo nel ghigno incoercibile che lo attanaglia quando le emozioni prendono il sopravvento su di lui. Arthur Fleck non ha niente da ridere. Non ha mai avuto niente da ridere. Vive in casa con una madre malata della quale si occupa, in un rapporto quasi simbiotico e claustrofobico. Il lavoro manca per tutti, specialmente per un clown disturbato. Dalla madre eredita un delirio genealogico, frutto di un giovanile delirio erotomanico materno. Ma Arthur Fleck non è un soggetto. È l’oggetto della madre mai separato da un padre inesistente. È l’oggetto di una società che mortifica e aggredisce le sue parti più deboli, cercando di esorcizzare un senso di precarietà e impotenza per la vita misera. La violenza più forte che il film rappresenta è questa: un soggetto trattato da oggetto. Forse uno dei terrori più grandi. Un soggetto non visto, non riconosciuto, non voluto… mai nato.

Joker nasce da se stesso. È figlio della fantasia onnipotente di nascere da sé, di essere l’unico soggetto in un mondo di oggetti dai quali ogni investimento è ritirato. Madre compresa. Padre compreso. Il delirio di Arthur Fleck arriva quando termina l’aspettativa che qualcuno lo possa vedere e riconoscere. Il suo delirio è semplicemente l’umano bisogno di essere visto e riconosciuto, solo giunto tardivamente in una mente compromessa, dove non c’è spazio per il conflitto, per l’Altro. Perché se c’è l’Altro,  Arthur Fleck ha imparato a sue spese che non ci può essere lui. Allora arriva Joker a dire in diretta televisiva che lui è il Soggetto, l’unico soggetto, sbarazzandosi con un sollievo emozionato degno di un infante, del suo idolo comico.  Di un altro padre che non lo aveva riconosciuto, ma che anzi lo aveva deriso.

Ad un certo punto, sono tutti comparse. Sono tutti oggetti. E non importa se il personaggio si chiama Wayne (Bruce o Thomas), o se è una bella donna di nome Sophie (fantasia di uno sguardo finalmente narcisizzante e separatore dalla madre), e neanche se è Penny, la madre. Arthur Fleck è ora se stesso, nella misura in cui è riuscito ad esserlo. E, pur nell’esito diremmo patologico, siamo felici che ce l’abbia fatta.

Si insinua, tuttavia, un altro dubbio. Ora che è Joker, siamo sicuri che non sia più un oggetto? Probabilmente no. Il film suggerisce anche altro. Il neonato Joker è “un” Joker tra molti. Viene “eletto” Joker dalla gente di Gotham City. Arthur Fleck, nel momento di massima soggettività diviene leader di un assunto di base di attacco-fuga che conviveva da tempo con un altro assunto di base di dipendenza a Gotham City. Il popolo dei Joker (un movimento popolare che lotta per il riconoscimento di una politica sociale più dignitosa) lo riconosce, finalmente. Nella sua incredulità, lui si presta a essere riconosciuto. Dal punto di vista gruppale, Joker è l’oggetto in cui vengono depositate emozioni violente di rivalsa contro i “potenti” (i padri che non riconoscono i figli). Dal punto di vista individuale, Joker gode della fantasia più onnipotente. La storia si è ribaltata: “Siete voi che avete bisogno di vedermi, non io”.

 

Link trailer: https://www.youtube.com/watch?v=o7nkJDjuSp4

 

 

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