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Favolacce

 No future

a cura di Cosmo Pietro Ferraro

 

tempo di lettura 2 minuti

 

Regia: Damiano D’Innocenzo, Fabio D’Innocenzo

Produzione: Italia, Svizzera

Anno: 2020

 

Alla Berlinale di quest’anno nasce una nuova stella nel panorama cinematografico che non si trova su Hollywood Boulevard ma in un non-luogo qualunque della periferia romana. I fratelli D’Innocenzo si portano a casa il premio per la migliore sceneggiatura con Favolacce, favola dark che dà ossigeno al cinema italiano con innovazione e originalità allontanandosi dall’eterno dualismo tra neorealismo e commedia all’italiana. Al secondo lungometraggio ormai la loro cifra stilistica è abbastanza chiara. Un cinema che inquieta e disturba lo spettatore indugiando negli angoli più reconditi dell’animo umano, disegnando un tessuto sociale sempre più alienato, arido e privo di legge morale. In questo senso li abbiamo già conosciuti in Dogman (ve ne abbiamo già parlato qui) avendo partecipato alla scrittura della sceneggiatura insieme a Matteo Garrone e vincendo il David di Donatello nel 2019.

In Favolacce troviamo una voce narrante fuori campo che ci accompagna nelle immagini leggendo il diario di una bambina ritrovato per caso chissà dove. Come nelle migliori favole i protagonisti sono i bambini, ma nel film dei D’Innocenzo non c’è spazio per principesse e case di marzapane. No, in questa favola lo sfondo è dato da villette a schiera monotone e i colori sono acidi. I bambini sono solo oggetti narcisistici dei genitori, pagelle scolastiche zeppe di 10 da mostrare la sera a cena in giardino davanti ai vicini di casa. Quando i bambini non riescono a soddisfare le idealizzazioni dei genitori allora si apre una crepa nei loro occhi e nel loro animo. Nel loro processo di identificazione. Non sono in grado di vedere negli occhi dei genitori un’immagine positiva da integrare nell’immagine del sé in costruzione, se non quella di oggetti aridi e morti.

Gli adulti, troppo impegnati nei loro giochi di invidie e gelosie, non riescono a comunicare con i loro figli e sono affettivamente incapaci di dare un contenimento ai bambini. L’unica regola valida è quella della vuota ostentazione di oggetti simbolo di uno status quo come palloncini e festoni per feste di compleanno o piscine gonfiabili.

Il film è un’allegoria di una società abbrutita che di generazione in generazione riesce a passare solo valori di plastica. I registi ci portano ancora una volta alle estreme conseguenze di questo ciclo continuo che avendo completamente prosciugato e desertificato ogni fonte di vita del mondo creativo interno non lascia che morte e disperazione. A questo punto anche la scuola, istituzione ultima di salvezza per le menti dei piccoli, diventa l’innesco di un vissuto distruttivo (se agito lo scoprirete durante la visione del film…).

Uno dei personaggi più interessanti è quello di Vilma, rappresentante di quel mondo di mezzo che sta tra l’infanzia ed il mondo dei grandi. In conflitto tra il bisogno di diventare grande e la voglia di rimanere bambina utilizza il suo corpo come merce di scambio relazionale confondendo la sessualità con la vicinanza affettiva. Una confusione figlia di una relazione primaria insufficiente che non è riuscita a fare da specchio e decodificare bisogni e aspettative. Nonostante questo la sua è l’unica figura generatrice e portatrice di vita visto che nel suo ventre aspetta di venire alla luce Sara.

Ci sono due temi principali nella colonna sonora del film. Uno è legato al nome della nascitura, successo pop di qualche anno fa (“Sara che cammini sotto il sole/ hai deciso di partire/ per cercare un’altra vita da seguire”), dal ritmo radiofonico che regala una speranza per il futuro; l’altro è l’esatto opposto, una composizione del XVII sec. conosciuta con il nome di “Passacaglia della vita” che ripete come una litania il verso “bisogna morire”, che entra nelle orecchie e rimbomba nella mente e nell’animo dello spettatore.

C’è ancora una speranza per le generazioni future e la nostra società? Prenderà il sopravvento l’istinto di morte o riuscirà a rifiorire la potenza generativa della creatività?

Dio salvi la Regina, cantava Johnny Rotten, o non ci sarà futuro per nessuno.

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