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Corri, coniglio

L’impossibile individuazione della nevrosi

A cura di Lorenzo Gambacorta

Tempo di lettura 2 minuti

Autore: John Updike

Titolo originale: Rabbitt, run

Edizione originale: Alfred A. Knopf, 1960

Edizione italiana: Mondadori, 1961

Scrive l’autore nella postfazione del libro, che a ispirarlo a scrivere del suo personaggio, Harry Angstrom detto Coniglio, fu una considerazione che fece pensando a Sulla Strada di Kerouac. Il mito della fuga, della libertà assoluta, del rifiuto delle convenzioni che Kerouac proponeva non convinceva Updike per una semplice ragione: “c’è sempre chi soffre quando scappi”. Cosi il suo personaggio assume l’identità del coniglio, animale che non si ferma mai, salta qua e la senza mai trovare pace. La mancanza di un centro è la sua caratteristica peculiare. Ciò ne fa una potente rappresentazione letteraria di un conflitto nevrotico che assume ben presto una dimensione esistenziale di perpetuo irrisolto rimbalzo fra dimensione etica ed estetica.

Ex campione di basket del liceo, Coniglio in una delle prime sequenze del libro si ferma di fronte a un campetto dove alcuni ragazzini stanno giocando, entra e quasi gli impone di giocare con lui. Torna a un passato che per quanto vicino sembra essere irrimediabilmente perduto. Ciò che è perduto è il suo desiderio, una soggettività strozzata, da quello che doveva diventare il suo destino di uomo comune. Come se il basket non potesse che essere un gioco infantile, da lasciar per questioni da adulti.

Egli adesso ha un banale lavoro di venditore porta a porta. Il sogno dell’adolescenza è morto. Torna a casa dalla sua partita estemporanea e trova una moglie “più stupida di lui” che tratta malamente. Coniglio allora scappa, di notte, furtivo. Updike cita qui il motivo della fuga e della libertà caro a Kerouac, ma Coniglio non si lascia trascinare dall’entusiasmo di una liberazione dalle convenzioni e dai valori di una società bigotta, decide invece di tornare. Semplicemente, per lui la fuga non ha senso, non ha il piacere della libertà, ma solo l’angoscia dell’abbandono. Non torna a casa però, va a vivere da un amante estemporanea, sembra trovare una vita sessuale meno inibita, ma non riesce mai a prendere una decisione definitiva. E rimbalzerà ancora e ancora fra la sua vecchia e la sua di fatto mai effettiva nuova esistenza.

Personaggio apatico e irrisolto per definizione, irritante e antieroico, Coniglio rappresenta il claustrum di un desiderio soffocato da convenzioni la cui rinuncia impone un’alienazione insopportabile. Sullo sfondo, neanche la fede o una legge superiore come quella di Dio riescono a risolvere il suo infinito vuoto. Altro personaggio fondamentale del libro è infatti il reverendo Eccles, che cerca in tutti i modi di salvarlo sopratutto per salvare narcisisticamente l’idea che ciò in cui crede abbia effettivamente un senso. E in una delle parti più belle del libro, Eccles si scontra con il suo collega luterano, Kruppenbach, il quale lo riprende acidamente ricordandogli che non è agendo nel mondo che loro fanno veramente le veci di Dio: l’unica cosa che devono fare è pregare, e ogni uomo dovrebbe fare lo stesso, lasciato solo nel proprio dolore. Questa è, fra le righe, forse l’unica soluzione che vede Updike, una feroce astinenza da un desiderio impossibile da conciliare con la civiltà.

La dialettica del libro ricorda molto il lavoro del terapeuta, perché un tema tutt’altro che saturo è quello della finalità dell’analisi. Che cosa otteniamo quando un percorso finisce? Come sostiene Andrè Green, ogni referente che si ha in terapia, il punto di riferimento ideale e concettuale che riguarda quale significato assume il percorso che facciamo (e tutto ciò che diciamo) nel mondo reale, per quanto rivoluzionario possa essere, in quanto referente rimane sempre norma. Ma tutto ciò che costituisce il rapporto che la norma ha col desiderio, questo non può essere facilmente dato per scontato.