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Tenet

a cura di: Cosmo Pietro Ferraro, Lorenzo Gambacorta e Luca Ricci

Regista: Christopher Nolan

Anno: 2020

Produzione: Stati Uniti d’America, Regno Unito

 

 

La teoria della relatività, Green e l’entropia nel transfert

a cura di Cosmo Pietro Ferraro

Tempo di lettura 2 minuti

Pochi giorni fa è stato consegnato il Nobel per la fisica a tre importanti studiosi teorici che sono riusciti a dimostrare come sviluppando la teoria della relatività di Einstein fosse possibile dimostrare la formazione dei buchi neri. Cosa alla quale sembrava in fondo non credere nemmeno Einstein stesso e per la quale pare un giorno Stephen Hawking scommise un abbonamento a “Penthouse” con Kip Thorne. Quest’ultimo, partendo sempre dagli studi sulla relatività, fu il primo ad osservare le onde gravitazionali provocate dallo scontro di due buchi neri come increspature nel mare del tessuto spazio-temporale dell’Universo.

Gli squarci provocati dai buchi neri, le increspature e le pieghe causate dai pianeti modificano quindi non solo la forma dello spazio ma anche il passare del tempo. Questo mette in crisi il concetto di tempo lineare…ed è un fatto universalmente riconosciuto e accettato nel mondo della fisica!

Thorne, premio Nobel anche lui, è un amico di Nolan e di solito supervisiona alle sceneggiature dei suoi film. Dal momento in cui mettiamo in discussione la linearità del tempo ‘in avanti’ viene a cadere inevitabilmente il costrutto di causa-effetto, ed è proprio su questo paradosso che a mio modo di vedere gioca il regista in Tenet.

Nolan, uomo di cultura, è un amante di letteratura e archeologia, interessi che lo accomunano ad un altro grande del passato, Sigmund Freud. Impossibile quindi non pensare a cosa rimane del concetto di realtà e reale, dell’esame di realtà e della realtà psichica. Il mondo della psicoanalisi, parafrasando quanto detto prima per la fisica, accetta e riconosce in maniera universale il fatto che il concetto di linearità del tempo e causa-effetto segua una (il)logica molto peculiare. Come tutti noi possiamo osservare nei sogni gli eventi si mischiano, le facce si sovrappongono, eventi del passato hanno forte influenza nel presente e viceversa, sintomi nevrotici si accoppiano in maniera strana ad angosce e vissuti profondi in un gioco simbolico narrativo molto cinematografico.

Nel film il protagonista trova il modo di muoversi nello spazio-tempo invertendo l’entropia dell’universo riuscendo, in definitiva, a ‘viaggiare nel tempo’ (e tutto ciò è reso in maniera spettacolare grazie alle abilità tecniche del regista). Molte delle scene del film sono state ideate e girate in modo che possano avere un senso sia se viste in avanti che indietro e come spesso accade nel suo cinema i personaggi attraverso i loro dialoghi cercano di spiegare allo spettatore il senso della storia (in maniera che risulta a tratti meccanica). In questo senso una delle scene per me più interessanti avviene nello studio di una non meglio specificata dottoressa/ricercatrice. Un proiettile balla su un tavolo finendo nelle mani del protagonista, ci si interroga proprio sulla questione della linearità del tempo e sul concetto di causa-effetto. Lui è confuso, fa domande, chiede come sia possibile comprendere cosa succede e come può controllarlo. La dottoressa risponde semplicemente che quella è la realtà.

Green stesso aveva teorizzato nel setting questa inversione di entropia, di tempo contro tempo. Il soggetto nel trauma congela l’atemporalità dell’inconscio ed è quindi nel transfert della seduta che i due tempi si scontrano cercando di reintegrarsi. Nuovi vissuti tornano indietro nel tempo a risignificare vecchie esperienze. Questi punti di sincronicità nella relazione tra terapeuta e paziente generano la realtà, l’unica che ha davvero interesse per noi e che avviene nell’intuizione della rêverie.

Alla luce di questo la domanda più importante mi sembra essere: ha senso per noi l’esame di realtà? Sì, ma solo se intesa come processo di ritrascrizione/ricomposizione e non come recupero di tracce di memoria che sono per loro natura fallaci e incomplete.

L’inafferrabile

a cura di Lorenzo Gambacorta

Tempo di lettura 2 minuti

Tenet è l’ultima opera di Nolan , regista che negli ultimi anni è sembrato fra i pochi ancora volenterosi, e capaci, di credere al cinema come arte in grado di meravigliare attraverso le immagini, mezzo per eccellenza di trasmissione dello straordinario. Tenet in questo senso sembra obbedire proprio al desiderio di ribadire quanto il cinema debba mantenere il suo status classico di propulsore alla creazione di immaginari. La storia infatti parte dal più classico degli espedienti del cinema spy: un “cattivo” vuole distruggere il mondo, degli agenti cercano di impedirlo. Qualcosa di impensabile però si pone in mezzo a loro; qualcuno, non si sa quando, ha inventato una macchina per invertire l’entropia. A espediente lineare, fin troppo, corrisponde invece un intreccio completamente labirintico (centripeto in senso narrativo, sembrerebbe da alcune interpretazioni), dove la linearità si perde completamente fino a diventare quasi del tutto incomprensibile ad una prima visione. Ed è questo, a discapito dell’oggetto stesso della narrazione e dell’espediente fanta-scientifico che la complica, il senso ultimo del film: l’inafferrabile come ordine effettivo delle cose nel mondo dell’ultra tecnologico (e proprio nell’anno del Covid, che ha posto non a caso alla prova le menti di tutti proprio su cosa potesse e non potesse essere spiegato, e sui limiti inevitabili della nostra comprensione anche nell’epoca dell’iperinformazione alla portata di tutti).

È proprio su questo paradosso che si fonda il film: La ricerca o l’appiglio al passato, alle regole culturali e tecniche della settima arte, il realismo, la fisicità di un aereo che si schianta (realmente) contro un hangar come si vede in una delle scene più spettacolari, di contro all’inafferrabilità anche percettiva del concetto di entropia al contrario su cui poggiano le azioni dei personaggi e la chiave della narrazione. Il realismo di ciò che il cinema era, e la cerebralità di quello che deve essere per sopravvivere come arte a se stante. Il tutto metafora di ciò con cui ogni mente umana deve fare i conti oggi: la pretesa di onnipotenza insita nell’illusione del tutto conoscibile dato dalla tecnologia, che si scontra con il limite inevitabile della comprensione proprio laddove le miriadi di informazioni a cui possiamo accedere non riescono mai a dare vita ad una gestalt unitaria, o perlomeno univoca.

“…”

a cura di Luca Ricci

Tempo di lettura 2 minuti

Sarebbe un bel film, se non fosse così brutto. Nolan costringe lo spettatore a una rappresentazione visiva di un concetto paradossale. E paradossalmente, riesce a tenerlo lì. La fotografia è superba, coinvolgente, con contrasti decisi e colori nitidi; i costumi sono ben studiati, eleganti e emblematici del personaggio che li indossa; i ritmi dell’azione sono serrati, creano suspense e attesa. Intriga la rappresentazione (forse la prima nel cinema) del personaggio che viaggia in un tempo che scorre nella direzione contraria alla sua. Intrigano le sequenze in cui si mischiano azioni che hanno una temporalità con azioni in temporalità contraria. Certo, confondono… e non poco. E la colonna sonora incessante, inutilmente epica e più adeguata a un aperitivo metropolitano non aiutano il pensiero. In realtà, la storia è semplice, quasi un cliché… più USA che british (la cui eleganza è conservata solo nei costumi e in una certa atmosfera della “quiet desperation” dell”’”english way” dei Pink Floyd). Salvare il mondo. Salvare i sentimenti. Tanto basica è la trama quanto piatti i dialoghi: parole da battute conclusive pronunciate da personaggi il cui spessore esistenziale è intuito solo dalle ombre sul muro.

Si viaggia nel tempo e si vede il mondo che va al contrario e gli eventi che si incontrano in due direzioni. Tutto molto epico, spettacolare, intrigato e cervellotico. Si approfondisce una dimensione e si perde spessore.

Ma, per dirla con Bion: “E allora?”. In Tenet (come in Interstellar) la forma sembra essere la vera protagonista e la sostanza solo un labile appiglio per quella. Tenet è un bel film, ma senza spessore psicologico. La grandiosità della produzione e dell’ingegno sembrano essenziali per colmare un vuoto di capacità narrativa e comunicativa. “E allora?”… che senso ha il film, oltre a quello di essere un film d’azione fantascientifico? Viene da chiederselo (non solo alla fine). Il linguaggio espressivo di Nolan sembra cercare di suggerire allo spettatore che sta guardando qualcosa che ha un senso molto profondo, che non deve fare troppo caso ai dialoghi, ai personaggi, perché quelli sono solamente delle marionette per dire altro (ma cosa?). Un senso nascosto… nascosto così bene da far venire il dubbio che non ci sia, che alla fine si tratti solo di un film d’azione fantascientifico. Ci si chiede se il senso si nasconda nel dilemma morale del salvare tanti sconosciuti o una sola persona amata. O nel quesito epistemologico della possibilità di conoscere la realtà in sé, nei suoi meccanismi più sottili. O, ancora, nell’annosa e sterile questione metafisica di una teleologia dell’Essere. Non si sa, ma nessuna di queste prende sufficiente risalto da stimolare lo spettatore. Pseudo-conflitti. Bloccati nel turbinìo delle scene esteticamente e estesicamente superbe, e disturbati da un muro sonoro incessante, il senso del racconto si perde e perde importanza. Non si può smettere di guardare e non si vuol continuare a guardare. Come sequenze di elementi beta che hanno trovato una parziale aggregazione, si ha la sensazione che il film rimandi a qualcosa; ma è solo una forma che illude. Sono comunque elementi beta veicolati con vari codici comunicativi che però non sembrano avere un vero valore informativo. Sembrano voler stimolare qualcosa di emotivo in uno spettatore contenitore chiamato a metabolizzare qualcosa che forse è “indigesto” per il regista. L’iper-realismo del film sembra tradire proprio questo: la rappresentazione è dettagliata, oggettiva, ma ben lontana dallo spessore esistenziale del neo-realismo, dove la realtà diventa Reale proprio perché vissuta da qualcuno, perché in riferimento a una vita che dà senso. In Tenet, il tempo è il tempo, il cattivo è il cattivo, l’eroe è l’eroe e la bella è la bella: le cose sono cose. C’è tutto e manca tutto. Tocca allo spettatore provare a dare significati del tutto personali a un evento che pretende di essere profondo, allusivo di un senso altro, ma che, come il tempo, non va in nessuna direzione. Si può vedere o, al contrario, non vedere.

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