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Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità

L’arte e l’elogio della tristezza

a cura di Cosmo Pietro Ferraro

tempo di lettura 2 minuti

Regia: Julian Schnabel 

Produzione: USA, Francia

Anno: 2018

 

 

Julian Schnabel da New York è uno degli artisti più interessanti della scena contemporanea. Pittore, sceneggiatore e regista. Forse uno dei pochi, visto il suo curriculum, ad avere il diritto di poter parlare e raccontare di Arte e Artisti. In Italia è apprezzato soprattutto come regista e insignito di numerosi premi per film come Prima che sia notte (Leone d’Argento a Venezia), ma anche Lo scafandro e la farfalla con il quale a Cannes ha ricevuto il premio per la regia.

Prima di Van Gogh si è già occupato di arte dirigendo, tra gli altri, anche David Bowie nei panni di Andy Warhol in un film dedicato alla vita di Jean-Michel Basquiat, suo rivale artistico nella realtà. Con Van Gogh però riesce nell’impresa di mischiare arti diverse. Dipingere sulla celluloide i quadri del tormentato pittore olandese. Recuperarne i colori e trasportarli sullo schermo. In breve tempo ci sembra di essere all’interno della mente di Van Gogh e guardare il mondo con i suoi occhi.

È proprio la ricerca del colore la chiave del film. La ricerca di una nuova luce da trovare verso Sud. Schnabel non si concentra sulla vita dell’artista quanto sulla sua personale ricerca della Luce, di paesaggi nuovi, della vita.

Per noi oggi invece il racconto di questo film è un pretesto per parlare della normalizzazione, del processo terapeutico, della melanconia e dell’elogio della tristezza.

Uno dei passaggi più poetici della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America riconosce come uno dei diritti inalienabili dell’uomo la ricerca della Felicità, al pari del diritto alla Vita e alla Libertà. Qualche decennio più tardi invece Ugo Foscolo scriverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di rintracciare qualcosa di “malvagio nell’uomo prospero”.

La conflittualità naturalmente presente nell’essere umano tra questi due poli può produrre sofferenza ma colora l’animo dell’uomo di diverse sfumature di colore, come in un quadro di Van Gogh. La società di oggi, al contrario, corre il rischio di isolarci verso una ricerca maniacale della felicità che è in realtà la maschera di una negazione dell’emotività e dei sentimenti.

In una delle scene più belle del film il pittore ha un interessante colloquio con il suo medico mentre gli fa un ritratto. Dopo viaggi, sofferenze, gelosie e tradimenti la vita di Van Gogh ha un momento di tranquillità all’interno di un istituto psichiatrico. Il periodo nel quale la sua arte vivrà il momento di maggiore prolificità. “Sembra essere così triste in certi momenti”, dice il dottore in posa commentando il suo modo di lavorare. Il Vincent immaginato da Schnabel coglie l’occasione per descriverci la sua visione del complesso intreccio tra melanconia e arte. “C’è una quantità di distruzione e fallimento in ogni quadro ben riuscito – risponde il pittore – Io trovo gioia nella tristezza […] e la malattia ci può anche guarire a volte. Questo è lo stato d’animo da cui ha origine un dipinto. Ci sono momenti in cui temo di ritrovare la salute.”

In questo e altri passaggi il film, dal mio punto di vista, sottolinea e rimarca la forza generatrice del sentimento melanconico che si contrappone ad un attivismo ossessivo, maniacale ed arrivista che finisce per inaridire la nostra forza vitale.

Permette di interrogarci anche sul percorso terapeutico. Il processo psicoanalitico sembra puntare in questa direzione quando porta a confrontarci con le nostre ferite più dolorose, ma rischia di dimenticarsene se persegue un obiettivo di normalizzazione tralasciando proprio questo potere generativo del conflitto inconscio, seppur doloroso.

“A volte dicono che sono pazzo…ma un po’ di follia è una benedizione per l’arte”.

 

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