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The Mist

La “fede”

a cura di Luca Ricci

tempo di lettura 2 minuti

Regista: Frank Darabont

Anno: 2007

Produzione: Stati Uniti d’America

 

 

Una tempesta notturna fa cadere un albero nello studio di un pittore, distruggendo il suo ultimo lavoro ad olio. Per rimuovere l’albero, l’artista e il figlio si recano al centro commerciale della cittadina, lasciando la moglie a casa. Mentre sono nel supermercato, fuori tutto viene invaso da una nebbia densa che non fa vedere cosa c’è dentro. La preoccupazione cresce e le forze di polizia e di soccorso si allertano. Nel supermercato, una madre angosciata per i figli rimasti a casa, chiede che qualcuno la accompagni attraverso la nebbia. Ma entrare nella nebbia fa troppa paura. Nessuno la aiuta. La donna esce, da sola.

Dalla nebbia cominciano a uscire creature mostruose, terrifiche, che attaccano gli avventori del supermercato, i quali si barricano all’interno coi mezzi che trovano. Nel caos e nell’angoscia spunta una pistola. Si creano dei piccoli gruppi, delle alleanze con dei leader e dei capri espiatori. Gli assunti di base prendono il sopravvento. Il protagonista riesce ad impossessarsi della pistola e decide di uscire con un piccolo gruppo, composto dal figlio, da una giovane donna e due anziani. Con un auto tornano a casa dell’uomo per recuperare la moglie. Ma la moglie è morta, avvolta da un bozzolo come altri prima di lei. La benzina finisce e fuori il mondo è totalmente invaso da creature sempre più grandi, dinosauri inestinti, presente di un pianeta sconosciuto. Il gruppo è fermo nella nebbia, paralizzato dall’angoscia. Hanno una pistola.

The Mist sembra rappresentare, condensare moltissime dinamiche psichiche, da quelle individuali, a quelle familiari, gruppali e sociali. A mio avviso, però, il film è il negativo di un’altra storia, quella che non viene raccontata. La protagonista è la donna che cerca i suoi figli e che è disposta ad entrare nella nebbia e affrontare l’ignoto. La donna è l’”atto di fede” che evoca Bion per l’approccio a “O”. È l’immagine di una madre che va incontro alla nebbia delle angosce dei figli, angosciata anch’essa. E sicuramente, senza sapere che cosa ci sia nella nebbia. Compie un atto di fede: i figli, qualcosa che dà senso al caos, ci deve essere! Non sa e non dà risposte; si potrebbe dire che non satura precocemente, che mantiene la capacità negativa nel più terribile dei momenti.

Capacità che il gruppo (o i gruppi) del supermercato non sostiene. La nebbia è troppo spaventosa e da essa si materializzano proprio quelle piaghe bibliche che tutti già conoscono. È il terrore dell’ignoto: non riuscire ad attendere il nuovo fa manifestare i persecutori noti. Il pensiero, in un momento di cambiamento, sembra non sopportare un’evoluzione in “O”, ma riporta “O” a “K” , saturando le preconcezioni con oggetti che, sebbene terrificanti, rassicurano perché conosciuti.

Di fatto, non si sa che cosa produca la nebbia e non si può sapere se non si esce dal supermercato, ossia dagli stereotipi, dal già conosciuto. Il gruppo che rimane non può metabolizzare gli eventi angoscianti, il “nuovo”. Si avvicendano allora assunti di base, leader, capri espiatori. La funzione gamma sembra non poter funzionare. In quella nebbia, le funzioni alfa dei personaggi sono opache, ferme, incapaci di lavorare. Dopotutto, la possibilità di una rȇverie è morta con la moglie del protagonista, con la madre del figlio del protagonista, unico bambino. La scelta del piccolo gruppo ad assetto familiare di uscire dal supermercato non è dettata da una spinta verso la conoscenza tramite l’attesa, ma da un assunto di base, sembra di accoppiamento, in cui il protagonista e la giovane donna dovrebbero salvare il bambino-messia. Ma non c’è pensiero, speranza, fede. I mostri diventano più grandi, la nebbia infinita. Tutto è uguale a se stesso. C’è la morte psichica.

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