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The Beach Boys – Smile

A teenage simphony to God

a cura di Lorenzo Gambacorta

tempo di lettura 2 minuti

Artista: Beach Boys

Etichetta: mai pubblicato

Anno: 1967

Genere: Pop

 

I Beach Boys erano il gruppo del Surf, sulla base delle intuizione di alcuni dei pionieri della chitarra elettrica come Dick Dale, unirono i ritmi del rock n’roll alle melodie dei complessi vocali degli anni ‘50 e contribuirono di fatto a creare l’epopea del rock. Se i Beatles sono il non plus ultra dell’industria culturale del secondo dopoguerra, probabilmente ai Beach Boys si devono molte delle intuizioni che crearono una nuova cultura giovanile. Non che loro fossero meno amati dal grande pubblico: le melodie solari e pompose e il ritmo sostenuto resero i loro brani leggendari per una nuova generazione di teenager a inizio anni ‘60. Marciavano al ritmo di un disco ogni 6 mesi circa, sfornavano singoli a ripetizione ognuno più vincente dell’altro, sorridenti stampati in copertina brillavano di successo e ottimismo.

Erano 4 fratelli più un cantante, Mike Love, ma l’unico di loro che componeva i pezzi era il bassista, Brian Wilson. I fratelli nascondevano un rapporto non cosi limpido col loro padre, il quale cercava di controllarne produzione e sorti finanziarie. Brian evolveva nel corso del tempo, scriveva melodie sempre più perfette, l’apice del pop versione americana, con un immaginario fatto di mare, tavole da surf, sole, spiagge. Quando nel 1965 esce Today!, Brian Wilson era già stato colto da un attacco di ansia in volo e aveva abbandonato il tour. Da allora in poi si sarebbe dedicato solo alla composizione. Nel frattempo, al blues delle basi dei brani veniva accostata una sempre più evidente marca orchestrale. Arrangiamenti fatti di fiati e archi, timpani e vibrafoni che si sostituivano o si aggiungevano alla batteria moderna. Il 1966 fu l’anno del disco che li celebrò come dei grandi del pop, Pet sounds, dove la complessità degli arrangiamenti ormai era altrettanto in evidenza rispetto alle melodie vocali. Ma a Brian Wilson non bastava. Egli voleva creare il disco pop perfetto, un ideale assoluto di perfezione formale, stilistica e melodica che riassunse in un’immagine:

A teenage simphony to God”.

La sua versione dell’opera perfetta si perse però presto in sessioni interminabili, brani cervellotici, testi complessi e bizzarri che sembravano negare la superficialità che i Beach Boys avevano incarnato fino ad allora, fino a divenire il manifesto della spensieratezza. Brian Wilson finì per rompersi internamente, crollò e fu diagnosticato di disturbo schizoaffettivo. I fratelli cercarono di riprendere il controllo, e alla fine Smile non uscì mai, rimanendo un leggendario cult di cui si sarebbero ascoltati solo frammenti delle session di registrazione.

La sua rottura fu la rottura della canzone che si perdeva in miriadi di frammenti sconnessi. Quasi a voler cercare un contenitore nel marasma di suoni e nel labirinto delle stanze musicali, Brian Wilson cercava nella melodia che sempre aveva contraddistinto l’aurea dei Beach Boys il tentativo i rimanere ancorato al reale. Ma le immagini solari evocate si facevano plumbee e inquietanti, decontestualizzate e fuori fuoco, spezzate e ricomposte in affreschi che non avevano più l’appeal dionisiaco del rock n’roll, ma sembravano affacciarsi di più alle bizzarre deformazioni dei corpi del cubismo. L’apice dell’alienazione è rappresentato da My only sunshine, che cita la bella e celebre melodia di you’re my sunshine di Johnny Cash ma la vira in tonalità minore trasformandola in una cupa parabola dell’assurdo che cambia forma all’improvviso.

Speculare allucinato del mondo dei consumi che ipoteticamente esaltava, epopea frammentaria e bizzarra di un impossibile ideale di perfezione e totalità, Smile rimase l’altra faccia musicale della Summer of love un po’ come Charles Manson lo fu della controcultura Hippie, l’allucinato alter ego dell’ideale della felicità e libertà assoluta, incatenato in un labirinto mieloso di frammenti musicali a cui lo spiccato melodismo dà una connotazione ancora più ambigua: come perdersi in un ansiogeno giardino dell’Eden dove ogni strada non trova mai sbocco e dove perdersi è inevitabile.

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