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Spiderland – Slint

a cura di Lorenzo Gambacorta

tempo di lettura 2 minuti

Artista: Slint

Etichetta: Touch and Go

Anno: 1991

Genere: Post Rock

 

Si parla di un album che è rimasto sconosciuto al grande pubblico, senza riscatto postumo, almeno in termini economici. È però cresciuto nella mente di molti col passare degli anni, rimanendo uno dei dischi più influenti degli anni ‘90, anche se il gruppo si sciolse addirittura prima della sua pubblicazione. Spiderland, la Terra del ragno, uscì nel 1991 per un’etichetta indipendente fra le più attive del panorama americano dell’epoca. Era il secondo album di 4 nerd del Kentucky, stato non certo centrale culturalmente parlando. I 4 ragazzi avevano un passato punk e completamente al di fuori dell’ambiente musicale mainstream, poterono sperimentare liberamente, liberi da qualsivoglia velleità di successo, ma anche liberi dall’influenza dei generi e di movimenti. Ciò che loro crearono, fu in effetti cosi unico da non poter neanche rientrare nei parametri di ciò che da 40 anni veniva definito rock o musica popolare. Essi ripresero le intuizioni sonore delle sperimentazioni newyorchesi della fine degli anni ‘70. Chitarre distorte con accordi dissonanti, scalature di chitarra alterate, riff e fraseggi algidi e atonali. Poi presero la forma canzone e la destrutturarono completamente: non più il format canonico, la strofa e il ritornello, ma “movimenti” che si alternano, una struttura narrativa, che si svolge e si sviluppa non necessariamente ripetendo uno o più dei suoi elementi. Quindi annullarono il concetto di cantato cosi come lo si era sempre conosciuto. Le loro sono frasi brevi, spesso parlate e non cantate, talvolta con improvvise esplosioni di urla, piccoli accenni impressionistici.

L’inizio di Spiderland è un pezzo in 7/8, tempo irregolare come la sua forma. Un arpeggio dondolante su batteria jazz. Breadcrumb Trail parla in effetti di qualcosa che dondola. É la storia di uno dei membri del gruppo che cade dalle montagne russe. Strano accenno autobiografico. Eppure mentre il brano si carica di pathos ed esplode in schegge taglienti di chitarre, la parabola assume un tono epico e sembra trasformarsi in una metafora esistenziale. L’attimo del cadere che diventa coordinata musicale, linguaggio. All’incipit segue altrettanta inquietudine nei successivi 5 brani (6 in totale nel disco), di cui l’apice rimane Washer, straniante ballad che parla di insonnia e racconta immagini che assumono l’ambigua tonalità surreale del limbo fra il sonno e la veglia. É questo il mondo della terra del ragno, inquietante e incuboso, indefinibile, feroce, sospeso, perso in una sospensione scura e densa. Ciò che conta non è quello che viene raccontato, ma il come: è la grammatica il suo punto focale, una grammatica del sogno, Dove ogni strumento si destruttura e si ricompone per partecipare alla creazione di una figura musicale fuori dallo spazio e dalla storia, in cui gli accenni alla tradizione appaiono pallidi stilemi scarnificati e dissociati, la nostalgia di un mondo non più vitale, ormai ridotto a un cumulo di macerie solitarie. Come levigati e sterilizzati, gli stilemi della musica pop si ricompongono a creare un linguaggio crepuscolare dell’assenza, di qualcosa di inafferrabile, e ormai perduto, dove la sintassi dei brani segue il surreale perturbante delle narrazioni oniriche.

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