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Shutter Island

La cura del delirio; il delirio della cura

a cura di Luca Ricci

tempo di lettura 2 minuti

Regista: Martin Scorsese

Anno: 2010

Produzione: Stati Uniti d’America

 

 

Sicuramente il film tratta della follia. Nel 1954, in una struttura psichiatrica specializzata in pazienti cronici e violenti situata su un’isola a Boston, arriva un agente dell’FBI per indagare sulla scomparsa di una paziente. Con lui c’è il suo vice, che lo accompagna nelle ricerche. Uomo sospettoso e teso, l’agente Edward Daniels si interfaccia con psichiatri, operatori e pazienti, scontrandosi coi medici sulla possibilità di riabilitazioni di violenti omicidi. Edward deplora il male, la violenza, dalla quale è comunque ossessionato: flashback della sua partecipazione alla liberazione del campo di sterminio di Dachau irrompono nella sua mente. Dalle indagini emergono indizi poco chiari, allusivi che sembrano gettare una luce sinistra sull’operato della struttura. Alcuni edifici, come il Braccio C e il faro, sembrano nascondere segreti e risposte a domande inquietanti.

I sospetti di Edward virano sempre più proprio sugli abitanti della struttura, i quali sembrano reticenti al suo svolgere le indagini e ad addentrarsi nei luoghi “proibiti” dell’isola. Edward indaga da solo, e sempre più solo trova connessioni e rimandi alla sua idea della corruzione e della malvagità della struttura.

Ma in quella struttura si curano i violenti, gli psicotici, i deliranti… come può essere corrotta e malvagia? Il film accompagna magistralmente lo spettatore nelle costruzioni labili, temporanee e frammentate della concezione personale del mondo e delle relazioni. Mostra quanto un lampo di un fulmine possa far cambiare luce e prospettiva sulle cose, quanto una pioggia le possa rendere opache e sfumate. Nei panni dell’agente Edward, chi guarda si interroga esso stesso su cosa può essere vero e su come fa ad esserlo. Deliri, appunto, che lo svolgimento della trama svela e chiarisce.

La trama si fonda su un presupposto che non viene indagato, anche se in una certa misura troverà spazio: “curare” il delirio. Torna in mente lo Schreber di Freud, perso nei suoi “raggi cosmici” con un delirio che assume la valenza di un tentativo di guarigione, poiché gli oggetti vengono, di nuovo, parzialmente investiti, sebbene in modo distorto, dopo il ritiro della libido sessuale. Nella clinica dell’isola sembra che venga quindi “curato” il processo stesso della costruzione personale del senso del mondo. Quello stesso processo che porta poi alla realtà condivisa, ma che in ogni caso risulta essere la “stampella” che l’Io è riuscito a creare per potersi sostenere. Il delirio rimane a copertura, a surrogato protettivo di una verità che l’Io sente come insopportabile; “curare” il delirio appare allora come togliere le “stampelle” a un Io che ha manifestato tutte le sue difficoltà.

Anche la topica della clinica sembra richiamare la modalità di funzionamento della mente delirante. Un’isola, separata dal senso condiviso. Il Braccio C, una zona rimossa, confinata, forse scissa, alla quale non si deve accedere; il faro, metafora dell’illuminarsi e dell’oscurarsi della coscienza; la clinica, raggruppamento di risorse che tentano di mantenere un nucleo psichico coeso e impegnato nelle attività della realtà. E le bufere, eventi emotivi catastrofici che mettono a repentaglio la tenuta della struttura. Un’isola che dice, anche strutturalmente, che non sembra poterci essere una psiche costantemente lucida, che ha dovuto stabilire delle aree di scissione con funzionamento adeguato alla prevenzione di una verità dura, distruttiva. Una verità mortifera, che invece di ripristinare ila trama dei significati psichici, ne rende intollerabile la profondità, rendendo la mente stessa un luogo dal quale fuggire, a rischio della vita.

Quindi, “curare” il delirio sembra esso stesso un delirio, un’interpretazione errata della realtà (la capacità di tenuta dell’Io del paziente) mantenuta nel tempo, incorreggibile e capace di trasformare la personalità. È una cura delirante che trova il suo perno sul desiderio del curante e non sui vissuti e le risorse della persona malata. Viene meno la domanda nietzscheana: “Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?” (Nietzsche, F., 1888).

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