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La condizione ipocondriaca, la relazione con un corpo che diventa estremamente problematico e polarizza buona parte delle energie mentali, è un fenomeno che ha interessato non solo la cultura medica e non è un argomento specifico della psicoanalisi. Letteratura, poesia, teatro, ne parlano, cogliendo tratti e punti di vista che ne arricchiscono la comprensione. Nel secondo prologo a “Il malato immaginario”, Molière ha scritto due prologhi a questa sua opera, una pastorella si lamenta di non trovare rimedio alla sua malattia d’amore. Ai Fauni che intendono portarle soccorso ella dice: Tutta la vostra scienza è una pura chimera, Medici vanitosi e bietoloni, Guarir non può coi vostri latini paroloni La piaga mia severa; […] I rimedi malfidi di cui crede l’incolto […] Per i mali ch’io sento non son salutari Alla vostra arroganza danno ascolto Solamente i Malati immaginari Molière, malato immaginario, rappresenta in teatro anche la sua condizione e ironia, mentre recita egli stesso l’ultima scena in cui il malato immaginario si è fatto medico per curarsi da solo, muore sul palcoscenico, realmente, della tubercolosi di cui soffre. Realtà- finzione; malattia vera-malattia immaginaria; malattia del corpo-malattia dell’anima. Il discorso del medico in Molière collude in modo tragicomico con quello del malato sul terreno ambiguo che separa la mala fede dal bisogno di credere; malafede imputata ai “dottori”, che il Malato non può e non vuole svelare perché ha bisogno di mantenere una pantomima di dialogo intorno alle sue sofferenze. Diverso è il dialogo, o meglio il non dialogo che spesso si instaura oggi fra il paziente ipocondriaco e la pratica medica corrente: a volte un dialogo fra sordi. Comunque la nostra comprensione dell’ ipocondria necessita di una apertura ad altre discipline: la critica letteraria, l’estetica, la linguistica, la filosofia, perché come propone Civitarese nell’ipocondria è possibile riconoscere un “genere narrativo” e forse più che in altre situazioni cliniche si tratta di confrontarsi con un linguaggio e con uno stile. Anche in altri autori troviamo spesso riferimenti a studi di filosofi e linguisti come Judith Butler, Michail Bachtin, Shoshana Felman, Jhon Langshow Austin per fare solo alcuni nomi. L’ipocondria ha sempre costituito un fenomeno problematico anche per il semplice inquadramento nosografico. L’ultima stesura del DSM IV istituisce la categoria dei Disturbi somatoformi, all’interno dei quali viene compresa l’ipocondria. Il recente Manuale diagnostico psicodinamico (PDM), con l’intento di fornire una descrizione condivisibile in ambito psicodinamico, non esclusivamente psicoanalitico, colloca l’ipocondria nei Disturbi somatizzanti di personalità. Le caratteristiche individuate per questo disturbo compaiono in modo evidente nella relazione col paziente. Nel PDM la sindrome ipocondriaca è considerata più grave del Disturbo somatizzante ed è caratterizzata dai seguenti aspetti: – Preoccupazioni eccessive per il corpo – Paura esagerata di patologie fisiche – Soglia bassa al disagio fisico – Rituali relativi alle preoccupazioni fisiche – La relazione col proprio corpo si sostituisce a relazioni profonde e significative con altri. – Nella psicoterapia può esserci un viraggio verso vissuti paranoici – Emergono carenze nelle funzioni simbolizzanti le emozioni delle figure parentali precoci – Possono verificarsi nella terapia silenzi carichi di odio per la sensazione che il terapeuta non lo prenderà in considerazione “sono solo tue fantasie”. – La reazione del terapeuta può essere di inutilità impazienza e irritazione. – Le preoccupazioni corporee possano sfociare in un delirio corporeo Si possono distinguere due stili prevalenti di modalità relazionale. Il primo caratterizzato da una più o meno aggressiva richiesta di rassicurazione; l’altro nel quale prevale il ritiro dalle relazioni, la lontananza e l’inaccessibilità. In questo caso è rara la richiesta di aiuto psicologico e il rapporto con i medici può essere drammaticamente conflittuale: continui esami e indagini cliniche anche invasive, ricoveri, come avviene nella sindrome di Munchhausen, fino alla c.d. “polisurgical addiction”, nella quale il paziente si sottopone a ripetuti interventi chirurgici non necessari. Aggiungiamo: che comunque qualche chirurgo esegue. I medici, appunto, a volte colludono nello stabilire col paziente una relazione distorta e patologica fatta di rifiuti e di reciproca aggressività agita. I pazienti che accedono ad un trattamento psicoanalitico appartengono per lo più al primo gruppo nel quale la ricerca dell’altro prevale sulla chiusura. Ma anche qui l’incontro può risultare frustrante e difficile. Il mio proposito oggi è di rimanere all’interno delle premesse teoriche e delle riflessioni che ci propone Civitarese, riferendomi ad esse come ad una cornice. Mi pare che la ricchezza dei riferimenti e il modo originale con cui vengono sviluppati ci permetta di dire che abbiamo elementi più che sufficienti per una discussione. E forse uno dei pregi dell’Autore è quello di non invadere altre discipline alle quali pure di continuo attinge. Ci troviamo sempre nella stanza di analisi; riconosciamo situazioni che abbiamo vissuto con i nostri pazienti. Mi pare poi apprezzabile nel discorso di Civitarese l’invito a non lasciarsi irrigidire dalle teorie o dalla tecnica; l’invito a coltivare una maggiore tolleranza e libertà nel contatto col paziente, altri modi di ascoltare e di essere presenti. Penso che, anche se il discorso è esplicitamente riferito alla relazione psicoanalitica, da esso sia possibile trarre preziose indicazioni anche per la psicoterapia psicoanalitica del disturbo ipocondriaco, che presenta a mio avviso analoghe problematiche di rapporto. Personalmente ho trovato stimolanti tre idee che cito in modo sommario: – le analogie fra seduta psicoanalitica e rappresentazione di teatro – il lavoro di casting. Il riconoscimento o la creazione nel racconto analitico di personaggi che entrano in scena e si fanno carico, per così dire, di rappresentare emozioni, stati mentali, ologrammi, markers, icone affettive; come dice Antonino Ferro – la trasformazione in sogno: relativa ad un particolare tipo di ascolto che privilegia la dimensione immaginativa ed onirica rispetto alla attinenza ad eventi e personaggi reali. Nel mio contributo alla discussione prenderò in esame tre punti. 1) Il processo di soggettivazione, elemento della dialettica Soggettivazione/Assoggettamento di cui tratta Judith Butler nei sui lavori sulla costituzione dell’identità performativa. Questo punto mi pare stimolante perché ci permette di riflettere su fenomeni di diversa natura: a) le ipotesi genetiche del disturbo ipocondriaco, la qualità della funzione materna di rêverie, la radice di possibili nessi con problematiche di tipo narcisistico. b) il tipo di relazione terapeutica che tende a strutturarsi; gli interventi del terapeuta possono risultare irritanti e intrusivi. 2) La qualità del dialogo interno del paziente e lo stile comunicativo che utilizza. Il testo che il paziente ci offre e nel quale ci coinvolge. La perdita della produzione dialogica dei pensieri e il carattere monodico del parlare denunciano le difficoltà del paziente a costituire e mantenere una polifonia interna. E qui mi riferirò alle idee di Michail Bachtin sul romanzo polifonico. 3) Si tratta in realtà di una domanda che pongo a Civitarese. Possiamo individuare dei nessi di complementarietà fra quanto egli scrive sul processo di soggettivazione e le radici gruppali dell’identità trattate da Kaes nel suo recente scritto “Il lavoro dell’inconscio in tre spazi della realtà psichica”? Considerate le cose che Kaes scrive sulla polifonia del sogno, sullo spazio onirico condiviso e sul sogno la cui scena si sposta da uno spazio intrapsichico ad uno interpersonale. Soggettivazione Il processo di costituzione della individualità può essere considerato come un evento paradossale nel quale lo sviluppo di una identità separata, del farsi soggetto è possibile solo vivendo una relazione di dipendenza: affermare se stessi la propria originalità e separatezza necessita della capacità di stare in una relazione di dipendenza. La dialettica fra Soggettivazione e Assoggettamento ad una norma non è eludibile e la sua impronta continua a emergere nelle dinamiche per la affermazione e per il mantenimento di una identità adulta per tutto il resto della vita. Non c’è pensiero o sviluppo che si sottragga alla necessità del confronto col potere. Il potere dell’altro, il potere della norma, i quali sono al tempo stesso antagonisti e indispensabili costituenti del mantenimento, non solo della costituzione, della nostra identità differenziata. La dialettica soggettivazione-assoggettamento funziona e si attiva solo in una dimensione affettiva. Dice J.Butler: “Nessuno soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale … la subordinazione si dimostra indispensabile al divenire del soggetto [ e ] implica uno stato di sottomissione obbligata…[lo stato di dipendenza] deve contemporaneamente arrivare ad essere ed essere negato”. Nella relazione che genera la soggettività è importante essere “soggetto riconosciuto”, ma anche sapersi accettare come “assoggettato”. Ciò implica però non solo che la relazione sia appassionata, ma anche che in essa si possa riporre una grande fiducia, che sia possibile affidarsi all’altro. La costruzione di questo clima di fiducia non è sempre semplice con un paziente ipocondriaco. La particolarità di questa situazione sta nel fatto che il potere che proviene dall’esterno deve avere riscontro in una base costitutiva interna che lo rende effettivo. Questa base è costituita dal doppio legame tra intrapsichico e intersoggettivo che origina il soggetto stesso nel momento in cui viene definito dall’altro da. “L’assoggettamento necessario soggettiva”, “il soggettivarsi assoggetta”, dice sempre J. Butler. Se in questo processo vengono a mancare la dimensione della passione, la fiducia e la competenza di rêverie della figura materna ogni assoggettamento è vissuto come una violenta sottomissione e come una terribile ferita narcisistica, una capitolazione. Quando il paziente si ostina nelle sue lamentazioni cerca di farci capire il paradosso drammatico nel quale si trova intrappolato: non può cedere alla ragione dell’altro e non può accedere a questo processo che solo gli offrirebbe una possibilità di trovare se stesso. Il corpo malato esprime questa situazione e nella relazione parla anche di ciò che non funziona in senso trasformativo. Il paziente teme molto il confronto con la “molteplicità del possibile”. Interpretazioni di senso altro, provenienti da un estraneo sono una minaccia per “la soggettività contingente”, limitata, patologica, alla quale il paziente è aggrappato per sostenere la sua identità Ma il modo con cui il paziente frappone il corpo e la lamentazione fra noi e lui tradiscono anche l’intensità del bisogno di contatto e l’alta temperatura dei sentimenti in gioco. E’ indispensabile per lui imbrigliare e negare quel desiderio che lo espone alla paura di un contatto traumatico. La ruminazione ipocondriaca nasconde tutto ciò e la richiesta insistente e lamentosa di attenzione ad un corpo presunto malato ottiene il risultato di irritare e tenere l’altro difensivamente a distanza. Queste riflessioni rimandano a esperienze precoci nelle quali la presenza materna non è stata sufficientemente contenitiva, la sua funzione di rêverie non ha offerto al paziente la possibilità di avviare un processo pensante proprio nei confronti delle esperienze somatiche e affettive primitive; il corpo non è stato tramite di una relazione dove si crea senso, si sogna e si immagina il possibile. E’ nell’incontro con la figura materna che si struttura il linguaggio ipocondriaco del corpo come tentativo di riparare una funzione di creazione di senso difettosa. E’ interessante osservare che la circolarità ricorsiva fra soggettivazione e assoggettamento rimanda alla circolarità fra mondo interno e mondo esterno, fra i quali possiamo anche cogliere la cesura. Anzi proprio in questa rottura della circolarità si generano zone di incertezza, fratture, punti di non coincidenza, contraddizioni, in altre parole “pieghe di senso”. Si aprono così spazi nuovi e nuove occasioni di definizione di aspetti della propria originalità e di superamento della posizione di assoggettamento. Spesso la relazione col paziente ipocondriaco comincia come una lotta sui significati, alla quale non è così semplice sottrarsi. In teoria sembra facile, ma nella pratica ho trovato difficile eludere il ruolo che il paziente con forza mi attribuiva in scena, senza uscire di scena, lasciando solo il paziente o creando una distanza insopportabile. Bella l’idea di Civitarese di fare in certe situazioni “il servo di scena”… non è sempre facile con la nostra educazione alla responsabilità. Quando il paziente ci coinvolge nei suoi racconti sul corpo e ci ingaggia in questa sfida sul significato di quanto gli accade è difficile trovare il filo della possibile costruzione comune di senso. Come si vede anche dall’esempio clinico che presento molti miei tentativi di comunicare, sono vissuti dal paziente come irritanti, intrusivi, svalutativi, a volte come veri e propri attacchi. E certo è lui che ha ragione … E’ necessario cogliere la difficoltà del paziente nello stare in quel particolare gioco paradossale che unisce il processo di individuazione con la sottomissione ad una norma, con l’assunzione di una posizione di dipendenza. Se non è solida l’esperienza che in un tale legame si può ottenere sollievo, riconoscimento di sé, arricchimento delle proprie capacità di pensare; se l’esperienza con l’agente le cure materne è stata di un più o meno grande fallimento di questo incontro, la relazione oggettuale è qualcosa da cui difendersi. Per il paziente, evitare il gioco relazionale serve anche a protezione e sostegno di una base narcisistica. Penso che il paziente ci mostri il suo tentativo di trovare un compenso, una cura. Per quanto scadente è sempre una soluzione e la difficoltà sta nel proporre una cura diversa “ curare la cura”. Per concludere questo primo punto vorrei solo accennare all’importanza della dimensione drammatica che aggiunge complessità alla visione epica della lotta per l’emergenza del soggetto. Questa dimensione chiama in causa l’ambiguità degli eventi nei quali il soggetto si afferma in un legame da cui dipende. Ci troviamo di fronte al conflitto estetico, la matrice della ambiguità; ma allo stesso tempo è una azione estetica quella operata dall’individuo per gestire l’ambiguità. La capacità negativa di tollerare questa ambiguità nell’incontro con l’oggetto estetico genera creatività, pensiero e soggettività. Affermare la propria unicità comporta la rinuncia parziale ad una appartenenza rassicurante di tipo simbiotico, indiscriminato. Conquistare uno spazio di soggettività passa attraverso l’elaborazione del lutto per la perdita di appartenenza. Lo sviluppo del teatro interno La polifonia Nell’ipocondria si assiste alla perdita di quella pluralità di voci che origina il dialogo interno. Negli anni venti Michail Bachtin scrive, fra gli altri, due saggi dal titolo “Dostoevskij. Poetica e stilistica” e “Estetica e romanzo”. Il pensiero di questo filosofo che si è sempre interessato di critica letteraria arriva in Europa solo negli anni ’60 grazie anche a Julia Kristeva. Egli sostiene la connessione fra letteratura e vita, fra arte e vita e fra estetica ed etica e in particolare afferma che la parola è per sua natura sempre dialogica, al di là dell’aspetto formale del testo scritto o parlato. Quello che qui ci interessa è la dialogicità della parola in relazione alle diverse voci che rappresenta nell’individuo nella costituzione del suo discorso interno. Bachtin dice inoltre che la fonte del valore artistico è la categoria dell’altro; il valore estetico comporta necessariamente questioni di tipo etico legate al problema dell’altro. Quindi nel valore estetico è implicita la relazione fra identità e alterità. Analogamente il valore linguistico di un testo riguarda la sua consistenza dialogica e rimanda alla capacità dialogica della parola. Ciò vale anche, in modo particolare e significativo, per il discorso interno, la parola che costituisce l’io dall’interno. La parola è sempre impiegata in riferimento al discorso di altri. La parola è significativa sempre e solo in relazione al senso che intende trasmettere; là dove il senso va oltre il significato. Bachtin afferma che Dostoevskij è il creatore del “romanzo polifonico” e presenta una serie di affermazioni, che possiamo così riassumere: – La polifonia è lo stile compositivo attraverso il quale l’autore dispone e organizza più voci all’interno del romanzo. – A ogni voce corrisponde un personaggio che esprime un punto di vista diverso da quello dell’autore. – Nel romanzo il personaggio è soggetto responsabile della propria parola. – Attraverso la parola il personaggio esprime: a) un punto di vista personale sul mondo b) una intenzionalità c) una propria lingua d) un orientamento emotivo-volitivo che lo spinge ad agire. L’autore permette che ogni personaggio sviluppi la sua logica discorsiva fino in fondo in piena autonomia. In questo modo il personaggio esprime una alterità che vive con una propria coscienza all’interno del romanzo. Attraverso il modo polifonico Dostoevskij esprime la contraddizione di voci della Russia del suo tempo. Scrive Bachtin “… la coscienza dell’eroe è data come una coscienza altra, estranea,, ma nello stesso tempo essa non si reifica, non si chiude, non diventa semplice oggetto della coscienza dell’autore.” Il conflitto fra voci-personaggi diversi è inevitabile perché è inevitabile l’interazione, la voce è sempre dialogica. Il romanzo polifonico è dunque per sua stessa natura dialogico e la voce di ogni personaggio è un fatto interindividuale e intersoggettivo. La sfera del suo essere non è la coscienza individuale, ma la comunione dialogica fra le coscienze. Il romanzo polifonico organizza dunque la voce di differenti individualità di differenti uomini idea. Partendo da queste premesse possiamo osservare la raffinata elaborazione psicoanalitica della ricerca di possibili accostamenti fra un testo manifesto che il paziente porta e un possibile testo latente utilizzando anche quella speciale operazione di casting di cui parla Civitarese. Ricordiamo le parole di A. Ferro: “personaggi che sono ologrammi, marker o icone affettive di cui è stato fatto il casting per esprimere le linee e le onde emotive presenti all’interno del campo emotivo della seduta”… “personaggi-ologrammi affettivi”. Vengono così riconosciuti/creati personaggi significativi che si presentano nella scena narrativa, ognuno dei quali può essere portavoce di una emozione di un tratto o di un aspetto del paziente o della situazione relazionale. L’osservazione indiretta di elementi molto caldi o difficilmente rappresentabili direttamente offre il vantaggio di un minore impatto emotivo ed è una possibile alternativa a interpretazioni per le quali il paziente non è ancora pronto Nel racconto che il paziente ci porta dei suoi vissuti somatici sembra perduta la matrice collettiva delle opinioni, il registro polifonico, la composizione di voci sulle quali si può accordare la voce del terapeuta. Il paziente recita un canto monodico che non tollera altre voci. E in particolare non sono possibili, almeno all’inizio, trasposizioni del suo testo in altri linguaggi. Bisogna attenersi al linguaggio del corpo sofferente così come è e farsi portare. Nella mente del terapeuta può continuare il dialogo interno che offre visioni diverse, a volte in contraddizione fra loro; coglie sfumature e possibili aperture di senso nel discorso del paziente, ma per lungo tempo tutto ciò deve rimanere sospeso, senza coagularsi in pensieri forti altamente saturi di significato. Per lungo tempo è utile rimanere in un clima di dubbio e di ambiguità, di comprensione vaga, anche se a volte la tentazione di capire e spiegare è forte. A volte serve la pazienza di ascoltare per l’ennesima volta lo stesso racconto e dimenticare di averlo già sentito, come quando si rilegge un romanzo amato e si è pronti a stupirsi di cose nuove non viste e non pensate. Il problema è in che modo incontrare il paziente evitando di essere intrusivi e traumatici, con un linguaggio forte. Meglio cercare il contatto offrendo un accoglimento e una presenza emotiva discreta aspettando i movimenti che ci indicano che qualcosa può essere recepito. Come dice Civitarese è importante rispettare il bisogno del paziente di trovare un equilibrio fra relazioni oggettuali e narcisismo. La ferita dell’incontro con l’altro, originariamente una madre carente di sintonizzazione e di funzione α, l’abbandono e/o il non sufficiente riconoscimento, la mancanza di rêverie, può essere il motore di un irrigidimento narcisistico anche di tipo paranoide. La voce monodica che rimugina sulle angoscianti sensazioni provenienti dal corpo parassita il corpo stesso e lo espropria della sua propria voce. Normalmente i vissuti somatici possono essere silenti e creare una sensazione-ambiante che abitiamo senza consapevolezza. Oppure si esprimono in modi forti, violenti: pensieri, emozioni, situazioni del mondo che ci circonda. La loro caratteristica è quella di esprimere un senso unitario, una esperienza-qualità la cui caratteristica è la autenticità soggettiva, nella esperienza normale in alcune esperienze abnormi, vedi la forza e l’evidenza delle esperienze primitive del delirio legate al corpo. Nel linguaggio ipocondriaco cogliamo una forzatura, il corpo sembra espropriato della sua lingua e forzato a rappresentare contenuti che non gli appartengono; a tradurre attraverso un cammino inverso il linguaggio della paura che abita la mente nel dubbio ripetitivo della malattia. Caso clinico Matteo ha 32 anni; è professore di lettere in un liceo, mi viene inviato dalla dottoressa di famiglia per disturbi somatici sempre più assillanti dei quali non si trovano riscontri organici. Vive solo. Decidiamo di cominciare una terapia con tre sedute settimanali. Mi dice subito che lo ha mandato la dottoressa per levarselo di torno perché non ne può più delle sue continue richieste di esami e di diagnosi. Penso: “cominciamo bene”. Però mi chiede una terapia “intensiva”; mi sembra dotato di una intelligenza brillante e mostra una apparente consapevolezza delle problematiche emotive legate ai suoi disturbi. Così dopo poche sedute comincio a proporre alcune prudenti interpretazioni di emozioni che sembrano legate nei sui racconti anche ai disturbi somatici. In una seduta parla del senso di peso al fegato, poi dice che si è tanto arrabbiato con un collega. Gli dico “ha, le è venuto il mal di fegato …”, risponde duro e con tono irritato: “ No, che c’entra … il fegato è un’altra cosa”. Anche se mi accorgo ben presto che non si va da nessuna parte e faccio marcia indietro, nel giro di qualche settimana M. diventa sempre più silenzioso e irritabile. Un giorno mi dice che tanto lo sa che sono d’accordo con la dottoressa di famiglia e sa cosa penso di lui … che è fissato e un gran rompiscatole e poi, le teorie della psicoanalisi … le conosce. Il silenzio è spesso carico di tensione, mi sento impacciato e non so se parlare o tacere. Anche interventi non interpretativi lo infastidiscono. Sono preoccupato per come si mette la faccenda, mi trovo a pensare “questo ce l’ha con me”, con una irritazione che di solito non accompagna tali constatazioni. Ci siamo persi, ho questa sensazione, mi sento responsabile. Mi consolo pensando che viene regolarmente alle sedute e non si lamenta esplicitamente di come va la terapia, sembra che gli vada bene così. Ad ogni seduta riesce sempre, comunque, magari con poche parole, a mettere su una specie di piedistallo i suoi disturbi e le sue paure. Cerco un supervisore esperto e accogliente e fra le altre cose mi sento dire che devo dimenticare per un po’ di essere il terapeuta. Sembra banale, ma penso che questo mi aiuti a sbloccare una situazione di stallo interno e qualcosa comincia a cambiare. Primavera, giornata splendida, dallo studio si sente cantare un merlo. Dopo le prime lamentazioni di rito: il fegato, l’intestino, cosa sarà, cosa non sarà, il solito silenzio. Io mi trovo a dire “ Però, bella giornata … “ con tono allegro, e penso cosa diavolo mi salta in mente di dire, ma ormai l’ho detto a dispetto della regola: prima pensare, poi parlare. Matteo quasi si volta verso di me. E’ sorpreso … Dopo poco racconta che ieri, come spesso fa, è stato “a vagare nei boschi”. Per molte sedute parla delle sue gite, passeggiate, escursioni. I boschi e i luoghi delle sue camminate sembrano diventare il palcoscenico delle sedute. Lui dice però che quasi non si guarda intorno: “vaga e rimugina” sulle sue preoccupazioni. Io mi trovo a seguire questo suo girovagare e mi accorgo che seduta dopo seduta la tensione fra noi si allenta. Mi guardo bene per un po’ da fare interpretazioni; mi limito a prudenti commenti sui pochi accenni che lui fa al paesaggio. Si dilunga su questa abitudine della quale non mi aveva mai parlato prima. Quando “vaga”, si isola dall’ambiente, a volte si perde, non guarda niente tutto assorto nelle sue ruminazioni sui disturbi, ma anche sui fallimenti con le donne, dei quali si vergogna molto e dei quali anche non mi aveva parlato. Di qui in avanti spesso le sedute si svolgono in questi boschi dei quali non c’è mappa, non si sa mai dove siamo. Il bosco è inanimato, penso al paesaggio pietrificato di una fiaba. Dopo qualche tempo però Matteo comincia a raccontarmi vicende significative della sua vita: i sintomi sono cominciati dopo una delusione sentimentale alcuni anni prima, fino ad allora era solo uno che si preoccupa un po’ delle malattie. Da allora la sua vita relazionale e intellettuale si è notevolmente impoverita e lui sente di aver “smarrito la strada”, di non sapere più in che direzione andare. La ragazza in questione lo aveva rifiutato in modo molto umiliante e lui si era sentito deriso. Aveva temuto che lei lo ridicolizzasse anche con altre comuni conoscenze per cui non vedeva più nessuno, mi dice con grande sofferenza “ho provato molta vergogna”. Ora c’è posto per i miei commenti per lo più volti a manifestare la mia presenza empatica. Ancora un po’ e un giorno mi racconta che quando è nata la sorella lui aveva poco più di due anni e la madre ha passato un brutto periodo, forse una depressione post partum. Decisero di mandarlo dalla sorella della madre dove è stato per alcuni mesi, “in esilio”. La zia abitava vicino e lui vedeva spesso la madre; ma gli raccontano che si ammalava tanto e che dormiva male la notte, così alla fine lo ripresero. Mi chiedo come era stata la madre dopo la sua nascita. Nel frattempo i boschi si sono animati. Siamo sempre a “vagare”, ma ci soffermiamo sulle molte presenze che animano la vita del bosco; piante, uccelli, tracce di animali, qualche incontro occasionale e lui comincia a interessarsi a quello che vede e che sente. Con mio grande piacere compaiono passeggiate in riva al mare, spiagge solitarie, il vento dal mare, le onde, pinete sabbiose, sole; la mia passione. E’ evidente che andiamo a camminare insieme. I pensieri sul corpo passano gradualmente sullo sfondo. Dove mi porta, mi chiedo; vuole che io lo segua e non faccia tante domande su dove andiamo e perché. Mi chiedo a volte con disagio se non dovrei sapere meglio in che direzione andare, forse dovrei fare di più; ma se supero questo disagio non è così male. Dopo alcuni mesi Matteo comincia a usare immagini prese in prestito da film e mi dice che il cinema è la sua passione, la cosa mi intriga perché anche io sono un amante del cinema. Le scene di film vecchi e nuovi sono spesso i luoghi dove avviene un contatto emotivo fra di noi, a volte intenso. In prima persona è come se quasi non ci fossimo, siamo sempre qualcun altro o da qualche altra parte e io sento che questo gioco non deve essere svelato. Ora accetta i miei inserimenti e un giorno dice “ è come andare a camminare insieme, e quando cammino nella realtà comincio a pensare che le parlerò di quello che mi succede o di quello che scopro”. Dice anche che è curioso delle cose che troverà e che gli capita di rimuginare molto meno sulle sue malattie e sui suoi disturbi. Il corpo torna gradualmente sullo sfondo e lui può cominciare ad occuparsi di altro e ritrovare un contatto col mondo. Fra l’altro ha ripreso a vedere alcuni vecchi amici; con uno in particolare il fine settimana va al cinema che, mi ripete, è la sua passione. (Io penso che il fine settimana non ci sono le sedute …) Un giorno racconta dell’arrabbiatura che si è preso perché non riusciva a regolare la sintonia della radio che sta costruendo; tanto che gli è tornato il dolore al fegato. La seduta precedente prima del fine settimana avevamo visto i significati possibili del suo peso al fianco. Penso che Matteo mi stesse dicendo che quel tipo di operazione lo faceva sentire trattato come un oggetto di studio. Il suo linguaggio ipocondriaco: capito, spiegato e liquidato come “non più necessario”, con buona pace, principalmente del terapeuta, che ero io. Dopo circa due anni di terapia un giorno poi mi dice che ha rivisto un vecchio film, “L’enigma di Kaspar Hauser” di Werner Herzog, del 1974 Lo ha colpito il racconto-sogno del protagonista sulla carovana nel deserto guidata dal vecchio cieco che per trovare la strada assaggia la sabbia. Mi sento emozionato; conosco il film che amo molto e ricordo la scena che rivivo mentre me la descrive con grande efficacia. C’è un cambiamento di atmosfera, nel film con lo stacco fra la stanza dove si trova Kaspar e la scena del deserto, ma anche nella seduta. Si entra in un clima di sogno; i colori seppia della pellicola; uomini e cammelli fluttuano, sospesi nel riverbero della sabbia del deserto. Un flauto di legno intona un canto su una scala pentatonica che accentua la sensazione di sospensione e di lontananza dal reale. Sul letto della sua stanza Kaspar racconta ai presenti: “Io vedo una grandissima carovana che sta attraversando il deserto in mezzo alla sabbia, e questa carovana è guidata da un vecchio con la barba tutta bianca, e questo vecchio uomo è cieco. Ora la carovana si ferma perché alcuni pensano di essersi smarriti perché davanti a loro vedono le montagne. Consultano la bussola per sapere qual’ è la direzione. Il vecchio prende un po’ di sabbia, la assaggia come se fosse da mangiare, poi gira la faccia verso il sole. Figli, dice il vecchio cieco, vi state sbagliando, qui davanti a noi non ci sono le montagne, è solo la vostra immaginazione. Continuiamo ad andare verso nord. E così tutti riprendono il cammino senza discutere e raggiungono finalmente la loro meta che è la città del nord. E’ là che ha inizio la storia, ma la vera storia che si svolge in questa città io non la conosco”
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