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L’incredibile storia dell’Isola delle Rose

 

a cura di Lorenzo Gambacorta

 

tempo di lettura 2 minuti

 

Regista: Sydney Sibilia

Anno di uscita: 2020

Produzione: Groenlandia/Netflix

 

 

L’incredibile storia dell’Isola delle rose racconta la vicenda realmente accaduta di un’isola artificiale costruita a largo delle coste di Rimini, appena al di fuori delle acque territoriali italiane, dall’architetto Giorgio Rosa. L’isola fu costruita nel 1958, si proclamò ufficialmente nazione indipendente il 1° maggio del 1968, con Giorgio Rosa come presidente, e l’Esperanto come lingua ufficiale. Le autorità italiane, preoccupate da una situazione completamente fuori controllo, tentarono di reagire..

La storia dell’Isola delle rose è rimasta in sordina per molti anni, sopratutto perché all’inizio molti sostenevano che il punto focale del progetto fosse quello di creare uno spazio commercialmente libero da qualsiasi imposizione, un brillante espediente per evadere le tasse.

Successivamente la storia si è ammantata di un aspetto più “romantico”. L’idea di Giorgio Rosa era creare una sorta di Utopia marina di una micronazione libera da qualsiasi forma di potere e di controllo, che in effetti ambiva ad essere completamente autogestita, con un suo statuto, una sua forma di organizzazione statale (una presidenza del consiglio e 5 dipartimenti), una sua moneta e addirittura suoi francobolli.

È sopratutto sull’idea di un’utopia di libertà che sembra concentrarsi il film. L’isola, dopo essere stata creata, attira infatti l’interesse di molti curiosi, i giornali locali cominciano anche a scrivere articoli, e in breve tempo si trasforma in una sorta di discoteca permanente, con feste ininterrotte, un bar, musica e centinaia di giovani che quotidianamente si spostano verso la sua struttura.

É interessante che proprio questo aspetto del film sembra essere quello storicamente più inesatto: in effetti molti articoli riportano che nessuna festa si tenne mai sull’isola.

La mitizzazione di un oasi di libertà assoluta, dove non esistono limiti ne restrizioni, sembra avere a che fare più con una fantasia di evasione rispetto a quello che abbiamo vissuto tutti nell’ultimo anno e mezzo. L’isola rappresentata dal regista diventa un mondo altro dove è concesso tutto quello che nell’Italia di fine anni ‘60 sembra venire limitato, quando non con le regole, comunque con una cultura che sembra mal vedere la creatività, la libera espressione, l’affermazione della soggettività (in questo senso è esemplificativa la prima sequenza del film, dove Rosa viene fermato dai carabinieri perché alla guida di un mezzo di sua invenzione non omologato).

Piuttosto “partigiano”, il film si schiera apertamente con l’idea di Rosa. Ma il senso di una libertà completamente scissa dall’appartenenza, dai toni piuttosto onnipotenti, interamente privata di limiti, suona a suo modo perturbante. Cosa sarebbe successo d’altronde se l’idea di Rosa fosse stata seguita in tutti il mondo e moltiplicata in centinaia o migliaia di situazioni?

Questo pone interrogativi su quali fantasie abbia evocato il fondamentale bisogno di socialità e libertà in epoca di pandemia. E quanto l’imperfetto e autoritario strumento del “lockdown”, intrinsecamente incapace di integrare aspetti fondamentali dell’esperienza umana (ulteriormente rimossi con una colpevolizzazione serrata e manipolatoria di qualsiasi spinta al divertimento e alla socializzazione) abbia però avuto l’effetto di provocare una scissione violenta internamente ad ognuno di noi, fondata sul pericoloso mito che per essere liberi si debba trasgredire.

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