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Contrappunto 51/52 è ancora una volta un numero doppio interamente centrato su un nucleo monotematico. Questa volta il focus del numero è la violenza; Contrappunto propone ai suoi lettori una raccolta di contributi che ne approfondiscono vari aspetti da differenti punti di vista: teorico, clinico, sociale.

L’articolo con cui si apre il numero, dal titolo Aggressività, attaccamento e mentalizzazione, di Franco Baldoni, costituisce una premessa teorica generale al tema, collegando la visione psicoanalitica classica con gli studi etologici e sull’attaccamento: in tale prospettiva l’aggressività umana perde la propria connotazione negativa assumendo un significato utile per l’evoluzione e la sopravvivenza della specie. Dietro a un comportamento ostile, violento, apparentemente irrazionale o distruttivo, infatti, si possono individuare strategie difensive relative alla protezione dai pericoli, al proprio ruolo sociale e alle funzioni svolte nei confronti del partner e della prole. Tale visione concorda sostanzialmente con quella della psicoanalisi classica che vede l’aggressività come una pulsione innata; ma mentre per Freud l’aggressività è al servizio della pulsione di morte e deve essere repressa, per Lorenz è al servizio della vita. Seguendo questa prospettiva le ragioni di un comportamento aggressivo possono essere ricondotte a quattro ambiti fondamentali: 1) un’esperienza infantile di deprivazione materna e di mancanza di cure genitoriali; 2) un comportamento di protesta teso a evitare la separazione e ottenere protezione da parte della figura di attaccamento; 3) una carente capacità di mentalizzazione e un atteggiamento di difesa conseguenti a traumi, abusi, maltrattamenti o scarsa sensibilità genitoriale; 4) lo sviluppo di un attaccamento insicuro distanziante o preoccupato.

Lo studio delle funzioni adattive svolte dai comportamenti aggressivi apre nuove prospettive nella psicoterapia non solo dei pazienti antisociali e violenti, ma di tutti quelli che manifestano problemi di controllo degli impulsi, di strutturazione del sé e di regolazione emozionale (attacchi di panico, disturbi di personalità), nei disturbi del comportamento di malattia (somatizzazioni, disturbi funzionali, ipocondria) e nei disturbi dissociativi e post traumatici.

Il fil rouge della violenza ricompare, sebbene in forma più implicita, nel lavoro di Alessandra Lemma, Sotto la pelle: un’analisi psicoanalitica delle modifiche corporee. Qui la violenza è in ballo come qualità della relazione con il corpo, oggetto di manipolazione e intrusione da parte di una funzione non riflessiva e concreta della mente.

Partendo dalla considerazione che il corpo si sviluppa all’interno della relazione precoce con l’altro, l’Autrice invita il lettore a soffermarsi sulla funzione che l’uso patologico del corpo svolge nell’economia psichica della persona. È nel mondo interno – “sottopelle” – che vanno ricercate le motivazioni ovvero le fantasie inconsce che costringono alcuni pazienti a “modificare estensivamente la superficie del corpo e/o ad esserne eccessivamente preoccupati”. L’indagine qui proposta orienta dunque all’approfondimento delle fantasie sottese all’uso del corpo come oggetto e distingue fra un uso patologico del corpo al servizio della relazione disturbata con l’altro e un uso patologico del corpo che sottende invece un attacco all’altro. Si possono conquistare dei progressi solo accompagnando il paziente ad allontanarsi dalla concentrazione sul corpo come oggetto che può essere manipolato, in direzione di un pensiero sulla relazione con l’oggetto interiorizzato, verso un uso più esteso della mentalizzazione.

Ci porta nel vivo della dimensione clinica l’articolo successivo, Trasformare la violenza delle emozioni: setting e gioco in adolescenza, di Massimo Vigna Taglianti: con sempre maggiore frequenza, nella pratica clinica, ci confrontiamo con adolescenti che hanno alle spalle vicende traumatiche, caratterizzate da perdite reali o simboliche, che rendono necessario un procedere analitico fondato sull’idea che il compito primario dell’analista sia quello di promuovere e sviluppare la capacità di pensare, piuttosto che quello di disvelare un materiale inconscio rimosso. A partire da questa prospettiva assume una rilevanza centrale considerare il setting come uno spazio ludico transizionale “tridimensionale”: uno “spazio potenziale” di crescita dove la relazione di transfert possa svilupparsi in tutte le sue componenti – narrative e simboliche, ma anche pre-simboliche e agite – per trasformare la violenza impensabile di emozioni grezze e permettere a un individuo che non è mai arrivato a divenire se stesso di costruire i significati della propria esperienza soggettiva.

Anche l’articolo di Gabriela Gabbriellini e Arianna Luperini, Il silenzio: da violenza ad ascolto, affronta il tema nell’ambito della clinica e si sofferma in particolare sulla violenza insita in una certa qualità di silenzio.

Il silenzio è alla base dell’ascolto, permette al paziente di entrare in contatto con “le voci di dentro”, permette all’analista di fare posto alla funzione di rêverie che fonda la specificità del lavoro analitico. Le Autrici si interrogano su cosa accade quando l’ascolto incontra un silenzio vuoto di voci. Quando il silenzio anziché come spazio potenziale, si presenta come qualità di una violenza in vario modo subìta, come effetto e causa della violenza stessa, come trauma che non riguarda solo un evento particolare, ma, e soprattutto, la modalità con cui questo evento è stato trattato nella trama delle relazioni familiari. L’oggetto perduto scompare dallo spazio psichico e si fa silenzioso nel divieto di parlare dell’esperienza dolorosa.

Ripercorrendo le vicende analitiche di tre pazienti, le Autrici riflettono sulla possibilità di trasformazione della qualità del silenzio, in un caso il silenzio si è rivelato inelaborabile e negli altri due invece lo spazio dell’incontro ha permesso un ascolto di rêverie e la possibilità di uscire da un’esistenza silenziosa e immobile.

Ancora dal taglio clinico, segue l’articolo di Ida Binchi, Giada Mariani, Linda Root Fortini, dal titolo Relazioni familiari traumatiche e processo di soggettivazione in adolescenza. Il lavoro si occupa dell’influenza degli eventi traumatici sullo sviluppo psicologico, in particolare nel momento dell’adolescenza. Il focus è su un tipo di violenza, soprattutto psicologica, che permea situazioni di trascuratezza emotiva, carenza affettiva e/o fraintendimento dei bisogni da parte delle figure di accudimento. Questa violenza, spesso sottile, produce delle esperienze traumatiche che non possono essere integrate nella struttura mentale del bambino e che possono interferire nel processo di soggettivazione, compito primario dell’adolescenza.

Sul piano clinico si manifesta una scissione tra pensiero e emozioni. C’è un ritiro dalla sfera delle emozioni per evitare la sofferenza. L’Io viene espulso e sostituito da un vissuto di identificazione con l’aggressore in modo onnipotente e onnisciente. Questo deficit della capacità di elaborare l’esperienza causa un vuoto del senso di Sé, un “buco di soggettività”.

Affianco alla discussione teorica, vengono presentate tre situazioni cliniche diverse sia per tipo di relazionalità patologica che per tipo di intervento psicoterapeutico.

Il vertice psicodinamico si integra con quello sociologico nel testo di Antonella Lumachi dal titolo Gli indicatori psicologici della donna vittima di violenza di genere; l’Autrice analizza quali siano le principali variabili che incidono sulla risposta psicologica delle donne vittime di abusi, indagando in dettaglio la letteratura specifica sul tema. Gli studi e le ricerche degli ultimi 40 anni hanno dimostrato come la violenza, in quanto esperienza ad alto potenziale traumatico, interferisca con lo sviluppo e il mantenimento nel tempo “delle potenziali capacità umane”, e abbia conseguenze durature sulle vittime. Tali alterazioni “traumatiche” creano difficoltà nella gestione e nell’elaborazione delle emozioni e interferiscono con la capacità di affrontare le problematiche quotidiane. L’Autrice fa riferimento anche alle strategie perverse degli abusatori, che mettono in atto delle spirali violente difficilmente contenibili. L’articolo è sia una ricognizione sui fattori “post-traumatici” sia una riflessione sui possibili fattori predisponenti al rischio di subire violenze (come l’apprendimento, all’interno della famiglia di origine, di modelli relazionali distorti) e si conclude con una rassegna dei dati epidemiologici.

Il lavoro successivo, La violenza nelle relazioni affettive: quale psicoterapia? focus sugli autori, presenta un’esperienza terapeutica inusuale – si potrebbe dire da un vertice “ribaltato” – svolta da Andrea Cicogni, che propone un resoconto del suo lavoro al C.A.M. (Centro Ascolto uomini Maltrattanti), che egli ha fondato a Firenze nel 2009 e dove è conduttore di terapia di gruppo. Si tratta del primo centro italiano per la cura degli uomini autori di violenza, proponendosi come risposta concreta al problema molto diffuso della violenza di genere. Se la violenza, infatti, è da considerarsi fuor di dubbio una delle poche cause certe di disturbi mentali, è mediante il trattamento psicoterapeutico che gli uomini maltrattanti possono essere aiutati ad uscire da quello che in molti casi è il “ciclo della violenza”. Alla luce delle esperienze nazionali e internazionali, l’Autore propone qui, anche mediante l’illustrazione del programma terapeutico che si svolge all’interno del suo Centro, una riflessione sulla complessità di un problema che coinvolge longitudinalmente ogni classe sociale, ogni livello di istruzione, di reddito, di professione e di età.

Dedichiamo in questo numero la Sezione Ritagli alla psicoanalista milanese Dina Vallino; nell’articolo L’atmosfera emotiva nella famiglia, nella terapia e nella consultazione Isabella Lapi e Laura Mori la ricordano sia per gli apporti teorici e clinici alla psicoanalisi dei bambini e degli adulti che per i momenti non solo formativi che l’hanno vista protagonista nell’A.F.P.P. e nel gruppo di studio sulla costruzione della maternità interiore. Nello scritto viene ripercorso il pensiero teorico-clinico di Dina Vallino, ricco di innovazioni profonde che hanno inciso in modo significativo sul panorama psicoanalitico, mentre emerge una descrizione di lei come persona, sempre capace di accordare l’empatia con l’atteggiamento di verità.Seguono, per la rubrica Congressi e convegni, i report di due eventi che hanno avuto luogo nel 2014, ancora pertinenti al tema della violenza. Il primo resoconto, redatto da Luigia Cresti sul 3° colloquio internazionale dei formatori di Infant Observation, tenuto a Londra, dal 25 al 27 Agosto 2014, riguarda situazioni insolite di Infant Observation, fra le quali due in particolare spiccano per la traumaticità e il degrado psicologico del contesto sociale. Il secondo, scritto da Valentina Denti, dal titolo “Immersione libera” nella giornata di studio con Antonino Ferro, è un resoconto dell’intervento “La violenza e le sue trasformazioni possibili” tenuto da Antonino Ferro alla Giornata di Studio “La violenza e le sue trasformazioni possibili – Trasformazioni possibili: responsabilità, elaborazione, riparazione; Trasformazioni impossibili: rancore, vendicatività, distruttività” tenuta a Bologna il 15 novembre scorso.

A conclusione del numero, le consuete rubriche Recensioni e il Notiziario dell’Associazione.

 

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