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The Matrix Resurrection

 Essere nel Tempo

 

a cura di Luca Ricci

 

tempo di lettura 3 minuti

 

Regia: Lana Wachowsky

 

Produzione: Stati Uniti d’America

 

Anno: 2021

 

Forse il migliore dei quattro, sebbene non possa davvero inserirsi nella saga a pieno titolo. Certo è che non può essere visto senza aver visto i primi tre. ma solamente per avere un punto di partenza e non una continuità. Matrix Resurrection è infatti una questione di continuità e di cambiamento. Forse, la regista ha proprio in mente il cambiamento nello scrivere e dirigere il sequel.  E anche il fatto che fosse solo una delle sorelle a dirigere il sequel della saga che le ha rese famose, è un bel cambiamento.

C’è da chiedersi che cosa, però, sia cambiato. Che cosa non è più nella continuità. Il cambiamento sembra essere quello del tempo che passa. E il film, a mio parere, se ne occupa e lo rappresenta egregiamente, proprio grazie al suo rapporto di continuità/discontinuità con la trilogia precedente.

Il primo Matrix si può dire che fu un inno al “cambiamento catastrofico”; il secondo e il terzo, pur con tutta la complessità di personaggi accennati e mai approfonditi e una celebrazione dello stile filmico dei registi inaugurato col primo film, furono una bella storia d’amore (e altre cose che ci si possono trovare). Ciò che però percorreva tutti e tre i film era il senso di onnipotenza giovanile. Personaggi belli, forti, con abiti ricercati, passioni forti e ideali grandiosi in un mondo ben organizzato intorno ad un nemico. Uno scenario USA con la costante prepotenza adolescenziale. Ma è quella prepotenza e quella adolescenza che può produrre film epici e innovativi. Una delle più vistose innovazioni di Matrix è stata sicuramente il bullet time, un effetto speciale magistralmente integrato con le scene d’azione, quasi che quelle scene potessero essere fatte solamente con quella tecnologia per rendere quel che dovevano rendere. Ma anche l’aspetto dialogico è un punto di forza e caratterizzante la trilogia: dialoghi fatti di monologhi complessi, ricchi di richiami concettuali ad ampio spettro, scambi ad effetto capaci di divenire iconici, descrizioni della realtà accattivanti per la loro dietrologia capace di mettere insieme dati disparati, ma simili tra loro (comprese sensazioni e vissuti del pubblico in generale). Ciò che non è specifico del film è la tematica della relazione reale/virtuale e la sua trattazione (nello stesso anno usciva il ben più profondo Existenz di Cronenberg; ma la lista è lunga). Però Matrix ha costruito una storia con un nemico che controlla, che plagia, freddo e inesorabile nel suo calcolo; e ha dato un eroe, di quelli che solo l’adolescenza sa dare. Un eroe che acquisisce la consapevolezza in un momento di cambiamento catastrofico, con la morte dell’innocenza e diviene un adulto. Ma un adulto onnipotente. Qui mi sembra risiedere l’incompiutezza della parabola narrativa dell’eroe.

Il tempo fa la differenza. In Matrix Resurrection il tempo è passato e sembra che la regista se ne sia accorta. Ritroviamo Neo alle prese con il solito nemico, il Sistema, da cui è stato riassorbito. Ritroviamo il villain, leggermente modificato, più introspettivo, psichico dell’obsoleto Architetto, emblema della cognizione. Ci sono ancora i diversi scagnozzi con abilità particolari. E alcuni vecchi amici, Morpheus in primis. C’è anche Trinity. Ciò che colpisce è lo sguardo di Neo. Neo è sempre stato perplesso, dubbioso, ha sempre avuto “bisogno di tempo” per capire qualcosa e poi agire. Questo Neo è sì perplesso, ma è per lo più distante, stranito, fuori contesto. Neo sembra chiedersi che cosa ci fa lì, a combattere col Ju-Jitsu di nuovo, a fermare proiettili, a fare inseguimenti vestito di latex. Si percepisce la sua stanchezza. E non solo la stanchezza fisica, quella data dall’età che avanza, ma soprattutto quella esistenziale, quella che chiede che vengano abbandonate le vecchie difese onnipotenti in favore di una maggiore integrazione del Sé e dell’oggetto. Questa stanchezza è ben rappresentata nelle scene d’azione, proprio quelle che hanno contribuito a rendere celebre Matrix. Sono sequenze che risultano posticce, inserite perché lo spettatore le attende. Uno spettatore che attende di rivivere l’epica, gli eccessi, gli opposti che si scontrano fornendo un unico vincitore. Un lauto pasto di scissioni e proiezioni per stomaci adolescenti. Invece, la regista propone sequenze intrusive nella trama, lente, anacronistiche e fuori posto. Non funzionano, annoiano. Ma sembrano annoiare di proposito. E in questo proposito (che si suppone, ma che non è confermabile) mi sembra risiedere la bellezza e la superiorità del film rispetto alla trilogia. Quanto è noioso crescere, invecchiare, passare da investimenti oggettuali estremi e idealizzanti a investimenti più integrati, che riescono a vedere le rughe degli affetti, la caducità della pelle, la consapevolezza dell’altro che non è per sempre. Ecco che Matrix Resurrection annoia, non emoziona, delude e deprime. Così come può essere deludente e depressivo (kleinianamente parlando) il processo di abbandono dell’onnipotenza giovanile, mitigata e talvolta traumatizzata dalla realtà e dal tempo. Quindi, niente più bullet time. Magari altro. Altro che però non avrà più la stessa presa perché riguarda una storia e dei protagonisti di un’altra età. L’era di Matrix è finita, ma non per un fallimento del sistema, non perché un eroe e un’eroina sono riusciti a distruggere il Nemico dell’umanità. Matrix finisce in un film brutto e faticoso da guardare perché quella storia è per giovani e ora non è pià narrabile. Questo la regista sembra saperlo bene, dosando sguardi carichi di anacronismo nei personaggi, frasi a effetto che non hanno più effetto in un contesto diverso, scene di azione inutili e ridondanti. 

Sicuramente il miglior Marix dei Matrix proprio perché ha capito di non poter essere più Matrix. La vera liberazione di Neo e Trinity è proprio quella dal sequel, dai personaggi, dal dover essere hollywoodiani e giovani fino alla fine. Il Tempo è un Sistema da cui non ci si libera, se non accogliendolo.

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