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Internazionale 1138

Negli ultimi decenni la terapia cognitivo comportamentale ha avuto la meglio sulla psicoanalisi tradizionale. Ma nuovi studi mettono in dubbio i suoi risultati. Il dottor David Pollens è uno psicoanalista che riceve i suoi pazienti in un modesto studio al piano terra nell’Upper East Side, un quartiere di Manhattan, a New York, che per concentrazione di analisti compete forse solo con l’Upper West Side. Pollens, che ha poco più di sessant’anni e i capelli radi color argento, siede su una poltrona di legno che si trova all’estremità di un lettino, dove fa distendere i suoi pazienti con lo sguardo rivolto dall’altra parte per esplorare meglio le loro paure e fantasie più imbarazzanti. Molti ci vanno più di una volta alla settimana, anche per anni, come nella miglior tradizione della psicoanalisi. Pollens ha ottenuto notevoli successi nella cura dell’ansia, della depressione e di altri disturbi della psiche di adulti e bambini grazie a lunghe conversazioni libere da qualsiasi censura o schema preciso. Andare a trovare Pollens, come ho fatto io in un pomeriggio d’inverno alla ine del 2015, significa tufarsi nell’arcano linguaggio freudiano della “resistenza”, della “nevrosi”, del “transfer” e del “controtransfer”. L’analista trasmette una sorta di caldo distacco ed è facile immaginare di potergli rivelare i propri segreti più inquietanti. Come altri membri della sua tribù, Pollens si considera una persona che scava nelle catacombe dell’inconscio per far emergere le pulsioni sessuali che si annidano sotto la nostra coscienza, l’odio che proviamo per chi dichiariamo di amare e le altre sgradevoli verità che noi stessi non conosciamo e spesso non vogliamo conoscere. Ma è opinione diffusa che Pollens e i suoi colleghi psicoanalisti si sbaglino. Tanto per cominciare, le tesi di Freud sono state smentite: da bambini i maschi non desiderano la loro madre né temono di essere castrati dal padre; le adolescenti non invidiano il pene dei loro fratelli; e nessuna scansione cerebrale ha localizzato l’es, l’io o il superio. La pratica di far pagare ai pazienti parcelle salatissime per rimuginare per anni sulla loro infanzia – definendo “resistenza” qualsiasi obiezione e sostenendo che serve ulteriore analisi – è ritenuta da molti una truffa. “Probabilmente nessun’altra illustre figura della storia si è mai sbagliata tanto sulle cose importanti che ha detto” dichiarava nel 2004 il filosofo Todd Dufresne a proposito di Sigmund Freud, sintetizzando l’opinione comune e facendo eco allo scienziato e premio Nobel Peter Medawar, che nel 1975 aveva definito la psicoanalisi “la più eccezionale truffa intellettuale del ventesimo secolo”. Secondo Medawar la psicoanalisi era “un prodotto destinato a sparire, qualcosa di simile a un dinosauro o a un dirigibile nella storia delle idee”. Quando gli analisti cercarono di dare basi empiriche più concrete alla loro impresa, nacquero molte altre terapie. Tra tutte – quella umanistica, interpersonale, transpersonale, analisi transazionale e così via – alla ine a trionfare è stata la terapia cognitivo-comportamentale (Tcc). Si tratta di una tecnica pragmatica che non si concentra sul passato ma sul presente, non su misteriose pulsioni inconsce ma sulla modificazione degli schemi mentali che provocano emozioni negative. Una seduta di Tcc può consistere nel tracciare un diagramma per individuare i “pensieri automatici” autocritici che facciamo quando incontriamo un ostacolo, siamo rimproverati sul lavoro o veniamo respinti da una persona che ci piace.

Emozioni da eliminare

La Tcc è sempre stata criticata, soprattutto da sinistra, perché i suoi costi contenuti – e il suo obiettivo di rendere in breve tempo le persone di nuovo produttive – la fanno apparire sospettosamente attraente agli occhi dei politici che vogliono tagliare le spese. Ma perino quelli che la contestano per motivi ideologici non ne hanno quasi mai messo in discussione l’efficacia. Da quando ha fatto la sua comparsa, negli anni sessanta e settanta, si sono accumulati così tanti studi in suo favore che oggi l’espressione medica “terapia supportata empiricamente” è considerata sinonimo di Tcc: è l’unica a essere basata sui fatti. Ma i borbottii di dissenso della vecchia guardia sconfitta non si sono mai placati. E questo per un disaccordo di fondo sulla natura umana, sui motivi per cui soffriamo e su come, e se, possiamo sperare di trovare la pace interiore. La Tcc rilette una visione molto precisa delle emozioni dolorose, e cioè che devono essere eliminate o almeno rese sopportabili. In questa prospettiva un disturbo come la depressione, quindi, è un po’ come un tumore: sarebbe utile conoscerne la causa, ma è molto più importante liberarsene. La Tcc non sostiene che sia facile essere felici, ma lascia intendere che sia relativamente semplice: la nostra sofferenza è causata da convinzioni irrazionali che possiamo individuare e modificare. Secondo la psicoanalisi le cose sono molto più complicate. Prima di essere eliminata, la sofferenza psicologica deve essere compresa. Da questo punto di vista la depressione non somiglia tanto a un tumore quanto a un dolore all’addome: ci sta dicendo qualcosa e dobbiamo scoprire cosa. E la felicità – ammesso che sia raggiungibile – è qualcosa di molto più ambiguo. Non conosciamo davvero la nostra mente, e spesso preferiamo lasciare le cose come stanno. Anche se di solito non ce ne rendiamo conto, vediamo la vita attraverso la lente dei nostri primi rapporti. Desideriamo cose contraddittorie e qualsiasi cambiamento è lento e difficile. La nostra mente cosciente è solo la punta di un iceberg che emerge dal buio oceano del subconscio, che non può essere esplorato con le tecniche della Tcc, semplici, standardizzate e testate scientificamente. È una prospettiva molto più romantica e affascinante. Ma le tesi degli analisti cadevano nel vuoto man mano che gli esperimenti parevano confermare la superiorità della Tcc. Per questo ha suscitato molta sorpresa uno studio, pubblicato nel maggio del 2015, che sembra dimostrare come la terapia cognitivo-comportamentale sia sempre meno efficace nella cura della depressione. Esaminando decine di studi precedenti, due ricercatori norvegesi sono giunti alla conclusione che nel caso della Tcc la dimensione dell’effetto – una misura della sua utilità – dal 1977 in poi è andata diminuendo. La Tcc potrebbe aver esercitato una sorta di effetto placebo che ha funzionato finché le persone hanno creduto che fosse una cura miracolosa? Si stava ancora riflettendo su questo interrogativo quando, nell’ottobre del 2015, un gruppo di ricercatori della clinica Tavistock di Londra ha pubblicato i risultati del primo studio rigoroso fatto dal servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) sulla psicoanalisi a lungo termine per curare la depressione cronica. La conclusione dello studio è che, per le persone gravemente depresse, diciotto mesi di psicoanalisi funzionano meglio – e hanno effetti più duraturi – della “solita cura” offerta dall’Nhs, che prevede qualche seduta di Tcc. Due anni dopo la ine di diverse terapie, il 44 per cento dei pazienti sottoposti a psicoanalisi non rientrava più nei criteri della depressione grave, mentre tra gli altri pazienti la quota arrivava solo al 10 per cento. Nello stesso periodo la stampa svedese ha riferito di una scoperta fatta dagli ispettori del governo: un progetto in cui era stato investito l’equivalente di milioni di euro per riorientare la cura delle malattie mentali verso la Tcc si era dimostrato inefficace. Scoperte simili non sono isolate. Incoraggiati da questo, molti psicoanalisti ora insistono nel dire che la superiorità della Tcc è costruita sulla sabbia e che insegnare alla gente “a convincersi di stare bene” può peggiorare le cose. “Tutte le persone ragionevoli sanno che la comprensione di sé non si trova al supermercato”, ha dichiarato Jonathan Shedler, psicologo dell’università del Colorado e tra i più tenaci oppositori della Tcc. “I romanzieri e i poeti lo hanno capito da millenni. È solo da qualche decennio che si sente dire: ‘In sedici sedute possiamo cambiare gli schemi mentali di una vita!’”. Se Shedler avesse ragione, per i terapeuti potrebbe essere l’ora di rivedere molte delle cose che credono di sapere sul metodo: cosa funziona, cosa no e se la Tcc ha davvero consegnato alla storia il cliché dello psicanalista che si accarezza il mento e con lui l’intera visione della mente umana sostenuta da Freud. Le conseguenze di questa rivalutazione potrebbero essere enormi e cambiare il modo in cui i problemi psicologici di milioni di persone sono trattati in tutto il mondo. “Freud diceva un mucchio di stronzate!”, diceva Albert Ellis, considerato da molti il precursore della Tcc. Non si può dire che avesse tutti i torti. Uno dei problemi principali della psicoanalisi è sempre stato il fatto che il suo fondatore fu un po’ un ciarlatano, incline a distorcere i dati, se non a fare peggio (negli anni novanta si scoprì che Freud aveva detto a un paziente, lo psichiatra statunitense Horace Frink, che la sua infelicità nasceva dal rifiuto di ammettere la propria omosessualità, e gli aveva suggerito che la soluzione sarebbe stata dare un contributo economico alle sue ricerche). Ma a infastidire ancora di più quelli che contestavano la psicoanalisi e proponevano terapie alternative era la sensazione che anche il più onesto degli psicoanalisti si buttasse sempre a indovinare, e tendesse a trovare a ogni costo le “prove” delle sue ipotesi. La premessa fondamentale della psicoanalisi è che la nostra vita è governata da forze inconsce che ci inviano messaggi indiretti per mezzo di simboli contenuti nei sogni, di lapsus “accidentali” o di quello che ci fa infuriare negli altri, indice di ciò che non sopportiamo in noi stessi. Ma tutto questo rende l’intera teoria infalsificabile: se protestate dicendo all’analista che non è vero che odiate vostro padre state semplicemente dimostrando il disperato bisogno di non ammetterlo neanche a voi stessi. Questo problema delle profezie che si auto-avverano è un disastro per chi spera di trovare una spiegazione scientifica per quello che succede nella mente. Negli anni sessanta la psicologia scientifica era progredita a tal punto da non avere più pazienza nei confronti della psicoanalisi. Comportamentisti come Burrhus Frederic Skinner avevano già dimostrato che il comportamento umano, come quello dei piccioni e dei topi, poteva essere manipolato con risultati prevedibili usando il metodo dei premi e delle punizioni. Anche secondo la cosiddetta rivoluzione cognitivistica quello che succedeva nella mente poteva essere misurato e manipolato. E si sentiva una forte necessità di farlo in dagli anni quaranta, quando i soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale avevano mostrato di soffrire di disturbi emotivi che richiedevano un intervento rapido ed economico, non anni di conversazioni stesi su un lettino.

La scappatoia

Prima di gettare le basi della Tcc, Albert Ellis aveva studiato per diventare psicoanalista. Ma dopo aver esercitato per qualche anno a New York negli anni quaranta, si era reso conto che i suoi pazienti non miglioravano e, con una sicurezza di sé che avrebbe caratterizzato tutta la sua carriera, era giunto alla conclusione che questo non dipendeva dalle sue capacità ma dal metodo. Insieme ad altri analisti che la pensavano come lui, si rivolse all’antica filosofia dello stoicismo e cominciò a dire ai suoi pazienti che erano le loro convinzioni sul mondo, non gli eventi in sé, a farli soffrire. Vedere che qualcun altro aveva avuto una promozione al loro posto poteva renderli infelici, ma la depressione nasceva dalla tendenza irrazionale a generalizzare: bastava quell’unica sconfitta a fargli decidere che erano dei falliti. “La psicoanalisi offre ai pazienti una scappatoia. Non devono modificare i loro comportamenti, possono continuare a parlare di sé per anni, dando la colpa di tutto ai genitori e aspettando di avere una miracolosa illuminazione”, dichiarò anni dopo Ellis in un’intervista. Il tono disinvolto e pragmatico adottato dai paladini della Tcc rendeva facile non accorgersi di quanto fosse rivoluzionaria. Secondo la psicoanalisi tradizionale – e le più recenti tecniche “psicodinamiche”, che in gran parte derivano da quella – ciò che succede durante la terapia è che sintomi apparentemente irrazionali, come la ripetizione di schemi di comportamento controproducenti nei rapporti sentimentali o di lavoro, si rivelano almeno in parte razionali. Lo sono nel contesto delle prime esperienze del paziente. Se tanti anni fa un genitore ci ha abbandonato, non è poi così strano vivere nel costante terrore che possa farlo anche il nostro partner, e quindi comportarsi in un modo che porta il nostro matrimonio al fallimento. La Tcc ribalta la situazione: emozioni che possono sembrare razionali – come essere depressi perché la nostra vita è un disastro – sono il risultato di un modo di pensare irrazionale. Certo, abbiamo perso il lavoro, ma questo non significa che tutto andrà storto per sempre. Se prendiamo per buono il metodo della Tcc, cambiare le cose è molto più semplice: basta individuare e correggere qualche errore di ragionamento, invece di cercare i motivi segreti della nostra sofferenza. Sintomi come la tristezza o l’ansia non sono necessariamente indice di vecchie paure rimosse, ma intrusi di cui liberarci. Nella psicoanalisi il rapporto tra analista e paziente è una sorta di provetta in cui il paziente riproduce il modo in cui si relaziona agli altri per capirlo meglio. Con la Tcc, invece, il paziente cerca solo di liberarsi di un problema. Con la sua irriverenza e la sua aggressività verbale Ellis era destinato a rimanere un outsider, ma il metodo di cui era stato pioniere ottenne più considerazione grazie ad Aaron Beck, un misurato psichiatra dell’università della Pennsylvania. Oggi Beck ha 94 anni, e in tutta la vita probabilmente non ha mai definito nulla una “stronzata”. Nel 1961 ideò un questionario costituito da 21 domande a risposta multipla, noto come Inventario della depressione di Beck, per quantificare la sofferenza dei pazienti, e dimostrò che, in circa metà dei casi, pochi mesi di Tcc erano sufficienti a eliminare i sintomi più gravi. Le proteste degli psicoanalisti furono liquidate come il tentativo di difendere il loro redditizio orticello. Seguirono molti altri studi che dimostravano l’efficacia della Tcc per curare problemi come la depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo e lo stress post-traumatico. “Sono andato ai primi seminari sulla terapia cognitiva convinto che fosse un altro metodo che non funzionava”, mi ha detto nel 2010 David Burns, che ha contribuito a far conoscere la Tcc con il suo best seller mondiale Feeling good. “Ma ho sperimentato la tecnica, e persone che da anni sembravano bloccate e senza speranza hanno cominciato a stare meglio”. Non c’è dubbio che la Tcc abbia aiutato, almeno in parte, milioni di persone. È successo soprattutto nel Regno Unito, dopo che l’economista Richard Layard, un convinto sostenitore di questo metodo, diventò lo “zar della felicità” di Tony Blair. Nel 2012 più di un milione di persone era già stato sottoposto gratuitamente a questa terapia grazie a un programma approvato dal governo su proposta di Layard in collaborazione con lo psicologo di Oxford David Clark. Anche se la Tcc non fosse particolarmente efficace, non si può negare che l’iniziativa abbia permesso a molte persone di farsi curare. Tuttavia resta la sensazione che in questo modello della sofferenza mentale manchi qualcosa. In fondo tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore e i rapporti con gli altri sono estremamente complessi. Probabilmente l’intera storia della religione e della letteratura è stata un tentativo di comprenderne il significato. E le neuroscienze ci svelano ogni giorno nuovi dettagli sul funzionamento del cervello. È possibile che la risposta a tutti i nostri problemi sia qualcosa di così superficiale come “individuare i nostri pensieri automatici” o “modificare il modo in cui parliamo a noi stessi” o “sfidare il nostro critico interiore”? Una terapia può essere davvero così semplice da poter essere somministrata da un libro o da un computer invece che da un essere umano? Qualche anno fa, quando nel Regno Unito la Tcc cominciava a essere la terapia più diffusa tra quelle offerte dal sistema sanitario pubblico, una donna dell’Oxfordshire, che chiamerò Rachel, si rivolse all’Nhs in seguito a una depressione dopo la nascita del suo primo figlio. Fu mandata ad assistere prima a una presentazione Power- Point di gruppo, che prometteva di “migliorare l’umore” in cinque fasi, poi a una serie di sedute di Tcc con uno psicoterapeuta, intervallate da altre al computer. “Credo di non essermi mai sentita così sola e isolata come quando un software mi ha chiesto come mi sentivo su una scala da uno a cinque e, dopo che io ho cliccato sulla faccina triste, una voce registrata mi ha detto che le ‘dispiaceva’”, ha ricordato Rachel. Compilare i moduli della Tcc sotto la guida di un essere umano non era molto meglio. “Nella depressione post partum la vita si trasforma improvvisamente: prima lavori, guadagni e fai cose interessanti, poi ti ritrovi a casa da sola, coperta di vomito e senza adulti con cui parlare”, ha spiegato. Aveva bisogno di un rapporto vero: quel desiderio difficile da esprimere che qualcuno si occupi di te, anche solo per poco tempo. “Sarò anche malata di mente, ma so benissimo che un computer non può essere dispiaciuto per me”, ha concluso.

Interpretazione dei sogni

Jonathan Shedler si ricorda la prima volta in cui si rese conto che forse la visione freudiana di una mente molto più complessa di quanto la maggior parte di noi potesse immaginare non era poi così sbagliata. Era alcollege in Massachusetts e un giorno un professore di psicologia lo lasciò di sasso interpretando un sogno che gli aveva raccontato – in cui si guidava su ponti che attraversavano laghi e si provavano cappelli in un negozio – come espressione della paura di una gravidanza. Aveva ragione: in quel momento Shedler e la sua ragazza, che aveva fatto il sogno, stavano aspettando di sapere se lei era incinta, e speravano che non lo fosse. Ma il professore non lo sapeva, a quanto pare era solo un buon interprete dei simboli dei sogni. “L’effetto fu devastante, come una rivelazione venuta dal cielo”, ha spiegato Shedler. “Se c’erano persone al mondo che capivano quelle cose, io dovevo essere una di loro”. Ma iscriversi alla facoltà di psicologia, come Shedler fece in seguito, significò perdere l’entusiasmo per i misteri della mente, ha raccontato. I ricercatori si preoccupavano soprattutto di misurare e quantificare, non della vita interiore delle persone. Diventare psicoterapeuta implica anni di formazione e l’obbligo di sottoporsi a sedute di analisi; studiare la mente all’università, invece, non presuppone un coinvolgimento personale (oggi Shedler è un raro esempio di psicoanalista che è al tempo stesso un ricercatore). “Dicono che per diventare esperti in qualsiasi campo ci vogliono diecimila ore di pratica, ma la maggior parte dei ricercatori che pontificano sul funzionamento delle terapie non ne ha fatte neanche dieci!”, ha affermato. Gli studi e gli scritti successivi di Shedler contribuirono a mettere in dubbio la convinzione che non esistano prove concrete dell’efficacia della psicoanalisi. Ma è innegabile che i primi psicoanalisti disdegnassero la ricerca: tendevano a considerarsi persone che praticavano un’arte sovversiva da coltivare in istituzioni specializzate (ristretti circoli privati che raramente interagivano con le università). Di conseguenza le ricerche sui vari approcci cognitivi ebbero la meglio, e solo negli anni novanta i primi studi empirici sulle tecniche psicoanalitiche cominciarono a mettere in dubbio la superiorità del metodo cognitivo. Nel 2004 da una meta-analisi emerse che per molti disturbi una terapia analitica breve era efficace quanto qualsiasi altro metodo, e alla fine quelli che ne seguivano una stavano meglio del 92 per cento degli altri pazienti prima della terapia. Nel 2006 anche le conclusioni di uno studio condotto su circa 1.400 persone che soffrivano di depressione, ansia e disturbi correlati si rivelarono favorevoli alla terapia psicodinamica breve. E uno studio del 2008 sul disturbo borderline giunse alla conclusione che, a cinque anni dalla fine del trattamento psicodinamico, solo il 13 per cento dei pazienti ne soffriva ancora, rispetto all’87 per cento di chi non era stato sottoposto alla cura. Non tutti questi studi confrontano la terapia analitica con quella cognitiva: spesso la mettono a confronto con “le solite cure”, espressione che copre qualsiasi tipo di terapia. Ma, come sostiene Shedler, le differenze più evidenti tra i due metodi emergono un po’ di tempo dopo la ine della terapia. Se si chiede alle persone come stanno subito dopo il trattamento, la Tcc sembra convincente. Ma a distanza di mesi o di anni spesso i benefici sono svaniti, mentre gli effetti delle terapie psicoanalitiche sono rimasti o sono addirittura aumentati, il che fa pensare che queste terapie ristrutturino la personalità in modo duraturo, e non aiutino semplicemente le persone a controllare i loro stati d’animo. Dai risultati dello studio commissionato dall’Nhs britannico e condotto nella clinica Tavistock è emerso che i pazienti affetti da depressione cronica sottoposti a terapia psicoanalitica avevano il 40 per cento di possibilità in più di andare almeno parzialmente in remissione, durante i sei mesi della ricerca, rispetto a quelli sottoposti ad altri trattamenti. Parallelamente all’accumularsi di queste prove, gli esperti hanno cominciato a mettere in discussione gli studi che avevano favorito la diffusione della Tcc. In un provocatorio saggio del 2004 lo psicologo di Atlanta Drew Westen e i suoi colleghi dimostravano che i ricercatori, spinti dal desiderio di fare esperimenti che dessero risultati chiaramente interpretabili, spesso avevano escluso fino a due terzi dei possibili partecipanti, di solito perché avevano diversi problemi psicologici. Questa scelta è comprensibile: quando un paziente ha più di un disturbo è difficile separare le cause dagli effetti. Ma può implicare che i soggetti studiati siano estremamente atipici. Nella vita reale i problemi psicologici sono profondamente radicati nella personalità. Quello che portiamo in terapia (per esempio la depressione) potrebbe non essere quello che emerge dopo diverse sedute (per esempio la necessità di prendere coscienza di un orientamento sessuale che temiamo non sia accettato in famiglia). Inoltre in alcuni studi le carte sembravano essere state truccate a favore della Tcc, confrontando i risultati di questo metodo con quelli della “terapia psicodinamica” praticata da studenti di dottorato che avevano seguito solo un corso di pochi giorni tenuto da colleghi.

Difficoltà necessarie

L’accusa più grave rivolta dai paladini della psicoanalisi all’approccio cognitivo era che potesse addirittura peggiorare le cose: per esempio, trovare il modo di controllare l’ansia e la depressione può semplicemente rimandare il momento in cui si sente il bisogno di comprendere davvero se stessi e di arrivare a un cambiamento duraturo. La promessa implicita nella Tcc è che, in modo relativamente facile, passo dopo passo possiamo arrivare a dominare la nostra sofferenza. Ma non è forse meglio prendere coscienza di quanto poco controllo abbiamo sulla nostra vita, le nostre emozioni e i comportamenti degli altri? Questa promessa del controllo è seducente non solo per i pazienti ma anche per i terapeuti. “I pazienti sono preoccupati perché sono in terapia, e i terapeuti inesperti sono preoccupati perché non hanno idea di quello che devono fare”, scrive lo psicologo statunitense Louis Cozolino nel suo nuovo libro Why therapy works. “Quindi è confortante per entrambi avere un compito su cui concentrarsi”. I campioni della Tcc respingono queste critiche accusandole di superficialità, e sostengono che essendo diventata così popolare è normale che la loro terapia stia perdendo efficacia. I primi studi usavano campioni ridotti e psicoterapeuti entusiasti ma inesperti; quelli più recenti usano campioni più ampi e terapeuti con diversi livelli di competenza. “Chi dice che la Tcc è superficiale non la capisce”, ha dichiarato Trudie Chalder, che insegna psicoterapia cognitivo- comportamentale al King’s college institute of psychiatry, psychology and neuroscience di Londra. Chalder insiste che nessuna terapia è la migliore per tutte le malattie. “La Tcc cerca di smontare alcune convinzioni, che però non è facile far emergere. Non sono cose del tipo ‘Quel tizio mi ha guardato in modo strano, probabilmente non gli piaccio’, ma del tipo ‘Sono una persona che non può essere amata da nessuno’, che possono derivare da esperienze precedenti. Lavoriamo molto sul passato”. Tuttavia, la disputa non può essere risolta decidendo tra studi contrastanti. La questione è molto più complicata. I ricercatori possono raggiungere conclusioni diverse su quali terapie danno i risultati migliori, ma cos’è un buon risultato? Gli studi misurano il sollievo dai sintomi, ma una delle premesse cruciali della psicoanalisi è che per vivere una vita soddisfacente non basta non avere sintomi. In linea di principio alla ine di una cura psicoanalitica si può essere ancora più tristi – pur essendo più equilibrati e consapevoli delle proprie reazioni inconsce precedenti e vivendouna vita più piena – e comunque considerare l’esperienza un successo. Freud sosteneva che il suo obiettivo era trasformare “l’infelicità nevrotica in infelicità comune”. E Carl Jung diceva che “l’umanità ha bisogno di difficoltà: sono necessarie alla salute”. La vita èdolorosa. Dovremmo trovare una “cura” per tutte le emozioni dolorose? L’idea che l’approccio alla psicoterapia non dovrebbe essere scientifico – che la vita di ogni individuo sia troppo unica per essere sottoposta alle inesorabili generalizzazioni presupposte dalla scienza – è molto attraente. Questo fascino potrebbe spiegare il successo di The examined life, la raccolta di racconti dal lettino di Stephen Grosz pubblicata nel 2013, che nel Regno Unito è rimasta per settimane nella lista dei libri più venduti ed è stata tradotta in più di trenta lingue. I suoi capitoli non contengono dati sperimentali né diagnosi cliniche ma storie, e in molte il paziente ha un’intuizione improvvisa su quello che si nasconde nel suo io più profondo. C’è l’uomo che mente compulsivamente per avere una segreta complicità con le persone che riesce a coinvolgere nel suo inganno, proprio come sua madre nascondeva le prove del fatto che lui bagnava il letto. C’è la donna che si rende conto dell’inutilità dei suoi sforzi per negare l’infedeltà del marito solo quando nota la precisione con cui qualcuno ha caricato la lavastoviglie. “Ogni vita è unica e, come analisti, il nostro ruolo consiste nel trovare la storia unica del paziente”, mi ha detto Grosz. “Tante cose saltano fuori solo quando le persone hanno un lapsus, ci confidano una fantasia o usano una determinata parola”. Il compito dell’analista è essere ricettivo e attento a tutte queste cose, per poi “aiutare le persone a dare un senso alla loro vita”.

Il verdetto del Dodo

Negli ultimi tempi questa teoria apparentemente poco scientifica è stata sostenuta proprio dal settore che studia la mente nel modo più empirico: la neuroscienza. Molti esperimenti hanno indicato che il cervello elabora le informazioni molto più velocemente di quanto la coscienza possa percepire, perciò innumerevoli operazioni mentali avvengono, per usare l’espressione del neuroscienziato David Eagleman, “dietro le quinte”, senza che la mente cosciente se ne renda conto. Per questo motivo, come scrive Louis Cozolino nel suo libro, “quando ne prendiamo coscienza, un’esperienza è già stata elaborata molte volte, ha attivato ricordi e ha dato il via a complessi schemi di comportamento”. A seconda di come si interpretano le prove, sembra che possiamo fare innumerevoli cose complesse – dall’eseguire calcoli aritmetici a mente a spostare il piede sul freno per evitare uno scontro o a scegliere chi sposare – prima di renderci conto di averle fatte. Questo non si concilia con il presupposto fondamentale della Tcc, secondo cui con il giusto allenamento possiamo imparare a cogliere sul fatto tutte le nostre reazioni mentali sbagliate. Al contrario sembra confermare l’intuizione della psicoanalisi, cioè che il nostro inconscio è gigantesco e controlla quasi tutto e che inevitabilmente vediamo la vita attraverso lenti forgiate dal passato, che possiamo solo sperare di modificare parzialmente, con il tempo e con grande sforzo. Forse l’unica innegabile verità che emerge dalle dispute tra terapisti è che ancora non abbiamo capito bene come funziona la mente. Quando dobbiamo alleviare la sofferenza mentale “è come se avessimo un martello, una sega, una sparachiodi, uno scopino per il water e una scatola che non funziona bene, e continuiamo a colpirla con ognuno di quegli attrezzi per vedere qual è quello giusto”, sostiene Jules Evans, responsabile delle politiche del Centre for the history of emotions all’università Queen Mary di Londra. Questo può essere il motivo che ha spinto molti studiosi verso il cosiddetto “verdetto del Dodo”: l’idea, sostenuta da diversi studi, che il tipo specifico di terapia non faccia molta differenza. Il nome deriva dal giudizio espresso dal Dodo, uno dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie: “Tutti hanno vinto e tutti devono avere un premio”. Quello che sembra contare di più è la presenza di una persona comprensiva e attenta e di un paziente che vuole veramente cambiare. Se una terapia sia migliore di tutte le altre per tutti o per la maggior parte dei problemi ancora non lo sappiamo. Nel suo studio nell’Upper East Side David Pollens mi ha confessato che, nonostante la sua passione per la psicoanalisi, condivide abbastanza questo verdetto. “C’era un meraviglioso analista britannico, Michael Balint, che si occupava della formazione dei medici e faceva a tutti una domanda: ‘Quale pensa che sia la medicina più efficace tra quelle che usa?’. Tutti cercavano di trovare una risposta, e alla ine lui diceva: ‘Il rapporto con l’altro’”, mi ha raccontato. Ma perfino questa conclusione – cioè il fatto che non sappiamo quali terapie funzionano meglio – può essere considerata un punto a favore di Freud e dei suoi successori. Dopotutto la psicoanalisi incarna proprio questa umiltà su quanto poco potremo mai capire del funzionamento della mente. Freud era un arrogante. Ma ci ha lasciato la consapevolezza che non dobbiamo necessariamente aspettarci una vita del tutto felice né presumere di poter mai sapere cosa succede dentro di noi. Anzi, spesso preferiamo continuare a ignorare certe verità inquietanti. “Quello che succede nella psicoterapia”, ha detto Pollens, “è che molti vengono a chiederci aiuto e subito dopo cercano di impedirci di aiutarli”. Il suo sorriso sottolineava l’assurdità della situazione, e forse di tutta l’impresa terapeutica. “Come fai ad aiutare una persona quando ti dice, in un modo o nell’altro, ‘Non aiutarmi’? La psicoanalisi è tutta qui”.

L’AUTORE

Oliver Burkeman è un giornalista del Guardian. Scrive la rubrica settimanale “This column will change your life” pubblicata sul sito di Internazionale. Il suo libro più recente è La legge del contrario: stare bene con se stessi senza preoccuparsi della felicità (Mondadori 2015).

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